Pubblicato il 27/06/2017
CRONACA

Cara di Mineo, migranti protestano: “Il centro è una prigione: da due anni senza documenti



Sotto accusa il divieto di cucinare negli alloggi e di tenere i bazar. “Il nuovo Direttore ci tratta da animali”

di Giusi Scollo – Giacomo Belvedere

Oggi è stata una giornata calda al Cara di Mineo, il mega centro di accoglienza per richiedenti asilo in Contrada Cucinella. E non certo per il clima torrido di questi giorni estivi. Una protesta che ha convolto centinaia di migranti, che hanno  bloccato la strada statale Catania-Gela, ha infiammato tutta la mattinata, per spegnersi intorno all’una. “We don’t need this director”, si legge davanti all’entrata del Cara scritto con lo spry. E una scritta in italiano su un lenzuolo, utilizzato a mo’ di striscione, ribadisce il concetto: “Non vogliamo il nuovo direttore”. Il neo direttore del “Nuovo Cara di Mineo”, sotto gestione commissariale dopo le recenti inchieste giudiziarie che ne hanno azzerato i vertici, è l’ing. Giuseppe Di Natale. Nominato inizialmente come amministratore delegato del Consorzio “Nuovo Cara Mineo”, per supportare l’azione del presidente, il Commissario prefettizio Giuseppe Caruso, docente universitario di Economia a Catania, è stato da poco investito della carica di Direttore, in sostituzione di Sebastiano Maccarrone, l’unico sopravvissuto sinora dei vecchi vertici del centro, la cui testa era stata chiesta dalla Commissione parlamentare sul sistema di accoglienza, che nella relazione approvata a giugno aveva scritto di ritenere “fortemente inopportuno che le funzioni di direttore del centro restino affidate a Sebastiano Maccarone, sotto processo per truffa aggravata, per aver attestato falsamente, in concorso con altri, la presenza di immigrati presso il centro, ricevendo i conseguenti corrispettivi”.

ph. Andrea Annaloro

L’ultima protesta al Cara di Mineo risale a dicembre del 2014. Da allora non si sono registrati più episodi di malcontento sfociati in manifestazioni collettive di dissenso eclatanti. È come se fosse improvvisamente saltato un tacito accordo tra gli ospiti del centro menenino e i gestori. Un patto implicito, un modus vivendi in cui si dava il beneplacito allo status quo venutosi a creare sin dai primi mesi di esistenza del centro, nato nel 2011 da una “intuizione” dell’allora premier Berlusconi e del suo ministro dell’Interno il leghista Maroni. Una paternità imbarazzante su cui oggi il suo epigono Salvini sorvola. Il casus belli che  ha fatto scoppiare la protesta odierna sono state le nuove norme restrittive in materia di sicurezza, deliberate il 9 giugno scorso, nell’ambito del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, convocato, presso la Procura di Caltagirone,  dal Prefetto di Catania Silvana Riccio.  In quell’occasione, non si erano rilevate da parte del Prefetto Riccio gravi criticità in ordine alla sicurezza nel territorio riconducibili alla presenza del Cara di Mineo, a parte casi isolati. Ma si era annunciato un giro di vite in ordine al rispetto del divieto di cucinare i pasti e di vendere merce nei bazar. Le “bancarelle” presenti all’interno, ci aveva dichiarato categoricamente il Prefetto etneo, “Saranno smantellate al più presto”. Probabilmente avranno influito sulle decisioni prese le ultime sortite al Cara del leader della Lega Salvini, che ha ironizzato sulla presenza dei bazar. Ma Salvini sul problema immigrazione fa propaganda non politica; la propaganda cavalca i problemi, per incassare voti; la politica li governa. Il paradosso è che queste norme, richiamate in auge per tutelare la sicurezza interna al Cara, hanno creato problemi di sicurezza in un centro che, a dire del Prefetto, non presentava  gravi criticità, a parte fenomeni isolati, rientranti statisticamente nella norma per una comunità di persone superiori ai tremila abitanti. Il neo direttore Di Natale è, insomma, stato il parafulmine su cui si è scatenata la reazione per decisioni prese altrove.

ph. Andrea Annaloro

Forse avrebbe giovato spostare l’ottica del problema da una visione esclusivamente e riduttivamente securitaria a una antropologica, più attenta alle dinamiche socioculturali. Il Cara di Mineo, infatti, a dispetto del significato dell’acronimo (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) è nella realtà dei fatti diventato un centro di detenzione dei migranti, costretti dalle lungaggini mai risolte delle pratiche del riconoscimento dello status di rifugiato a permanere stanzialmente nel centro, trasformandosi da migranti di passaggio, a ospiti permanenti. Se consideriamo che per legge il riconoscimento dello status dovrebbe avvenire nell’arco di circa un mese, mentre i tempi “reali” si allungano cronicamente  sino a due anni e più, non è difficile capire che questa situazione di non rispetto della legge, ha avuto conseguenze enormi. Perché le regole del Cara sono pensate per migranti di passaggio, ma ovviamente non possono funzionare se quei migranti divengono stanziali. Se un uomo è costretto, suo malgrado, a fermarsi in un luogo per anni, cerca di “metter su casa”, di adattarsi alla lunga permanenza come se vivesse in una città. Antropologicamente cerca di “vivere” in quel luogo invece che semplicemente “starci”. E la “vita” comporta sue regole e ritmi: non ultimi quelli domestici. A casa ci dormo, non pernotto; a casa cucino i pasti e li condivido, non li consumo; a casa personalizzo gli spazi secondo i miei gusti e quelli della mia famiglia.

ph. Andrea Annaloro

Scrivevamo nel nostro Dossier sul Cara del 25 giugno 2013: «Benché ogni villetta sia fornita di cucina e barbecue esterno, è vietato prepararsi i pasti da soli, per “motivi di sicurezza”. Ma non di solo pane vive l’uomo. E Dante ci rammenta quanto possa essere umiliante provare «come sa di sale lo pane altrui». Questi aspetti antropologici del problema sembrano sfuggire del tutto.

«Il cibo –continuavamo -, come il vestire, fa parte dell’identità più profonda di un individuo. Lo testimonia la straordinaria ricchezza terminologica con cui ogni cultura si sbizzarrisce nel designare le proprie tradizioni alimentari e culinarie. Che differiscono non solo da Stato a Stato, ma anche da regione a regione e persino da città a città. Il servizio mensa, indispensabile se si pensa in termini di permanenza di 20/30 giorni, così come stabilisce la normativa, diviene un’imposizione insopportabile ed è percepita come una forma di colonialismo culturale, di omologazione forzata, quando i tempi si allungano a uno e anche due anni. Le proteste e i malumori per la mensa sono i più frequenti fra i residenti nel centro menenino. Inoltre c’è da dire che gli ospiti lamentano disturbi alimentari provocati dalla scarsa qualità del cibo. Non è escluso che il cambiamento delle abitudini alimentari abbia provocato intolleranze». A distanza di quattro anno niente di nuovo sotto il sole: possiamo riscrivere parola per parola come se fossero state scritte oggi. 

ph. Andrea Annaloro

Anche i problemi sono gli stessi. Quando riusciamo ad arrivare al Centro menenino, sono in centinaia, ancora fuori dalla struttura. Appena ci vedono e capiscono che siamo giornalisti ci circondano. Hanno voglia di parlare, si affollano, si accavallano, parlano tutti insieme. Come se fosse saltato un tappo e scaturisse un fiume in piena. Qualcuno, forse deluso da passate esperienze, quando sa che siamo italiani, va via: “Parlo solo con giornalisti francesi”. Altri, per conferma, vogliono vedere il tesserino. Le lamentele sono le stesse che sentiamo da anni: il pocket money pagato in sigarette; il cibo scadente; l’attesa snervante per il rilascio dei documenti; l’eccessiva percentuale di negative date alle istanze di riconoscimento dello status di rifugiato. Un padre ci mostra la giovane figlia: “Le danno sigarette. Ma mia figlia non fuma». Un rappresentante della Guinea Bissau denuncia un atteggiamento poco propenso al dialogo da parte del nuovo direttore: “Non ci ascolta. Ci tratta come animali”. Un giovane e una donna ci mostrano cicatrici sul corpo. Ma la ressa è troppa, le voci si accavallano e non riusciamo a farci spiegare dove se le sono procurate.  

I migranti vogliono  accompagnarci dentro il centro. Vogliono che parliamo col direttore. Spieghiamo loro, con fatica, che non possiamo entrare senza autorizzazione. Ci guardano stupiti: “Non siete giornalisti?”. Mostriamo loro il tesserino. “E allora?” – chiedono increduli. Vaglielo a spiegare che il Cara di  Mineo, “per problemi di sicurezza” è zona off limits per i giornalisti. Chissà cosa potrebbero raccontare…

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