Pubblicato il 09/09/2018
CULTURA

Camilleri scrive a “Ciccio” ma la lettera non è sua: gli esempi illustri di false attribuzioni del passato, da Mosè a Salomone e Omero



La lettera di Camilleri a "Ciccio", che sta spopolando sui social, è un apocrifo del 2011. Un caso simile la poesia "Lentamente muore" falsamente attribuita a Neruda. Ma non è una novità dei nostri tempi: di false paternità letterarie è costellata la storia della cultura, dai libri della Bibbia ai poemi omerici.


di Giacomo Belvedere

Sta spopolando sul web, ricevendo migliaia di like, condivisioni e commenti. Si tratta della lettera di un siciliano famoso, Andrea Camilleri, a “Ciccio”, vale a dire Francesco Merlo, giornalista di Repubblica, anche lui siciliano. Una lettera intrisa di patriottismo siculo e di orgogliosa rivendicazione delle radici culturali della Trinacria. Peccato la lettera non sia affatto di Camilleri, come del resto confermato dallo stesso Merlo, in un tweet di due giorni fa, e sia stata scritta nel 2011 dal movimento Sicilia Libera per l'Indipendenza della Sicilia.

Non è il primo né l'ultimo caso di una falsa attribuzione che fa il giro della rete, raccogliendo consensi. Un caso simile, in cui tutti gli internauti si sono sicuramente imbattuti, è quello della poesia Lentamente muore, attribuita a Pablo Neruda, che in realtà è di Martha Medeiros, giornalista e scrittrice brasiliana. E si potrebbe continuare a lungo. Se con un motore di ricerca digitate “poesie d'amore di Catullo”, vi capiterà di trovare testi che col poeta veronese non hanno nulla a che spartire e sono semmai più consoni alle frasi che si trovano nei cioccolattini di una nota marca. Ma tant'è. Il web non chiede, prima di far circolare un testo, la patente di paternità.


Se una lettera dello pseudo Camilleri fa il boom di visualizzazioni, c'è però una ragione. Potrebbe essere un errore affatto casuale, ma è assai più probabile si tratti di un falso astutamente congegnato. Una lettera di Camilleri ha un marchio di fabbrica che la rende immediatamente visibile. “Buca” la rete. Altrimenti rischia di cadere nel dimenticatoio. A prescindere da ciò che dice, che potrebbe anche essere condivisibile al 100% . Chi ha confezionato il falso lo sapeva bene.


Vuol dire che badiamo più alla forma che alla sostanza? Al brand più che al prodotto reale? La tentazione di inoltrarsi in una facile filippica contro la nostra società del look, è forte. E tuttavia il caso di testi apocrifi non è affatto una novità, propria dei tempi odierni: quanti documenti antichi del passato hanno avuto una paternità, ritenuta autentica per secoli, poi rivelatasi fasulla?


Ricordiamo la celebre Donazione di Costantino, un documento apocrifo medievale, su cui si basava un tempo il potere temporale della Chiesa, che l'umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò essere un falso.


Ma basta andare ai codici che sono la matrice della nostra cultura occidentale: la Bibbia e i poemi omerici. A lungo il Pentateuco, vale a dire i primi cinque libri, è stato attribuito a Mosè; e i testi cosiddetti sapienziali a Salomone. E sulla paternità omerica dell'Iliade e dell'Odissea la critica filologica da tempo nutre seri dubbi ed è sterminata la bibliografia attorno alla codiddetta "questione omerica".  C'è da dire, senza avventurarsi un problemi assai complessi, che si tratta di testi tramandati originaniamente oralmente, che solo successivamente, attraverso una storia redazionale in varie fasi, hanno raggiunto la forma scritta così come oggi noi la conosciamo. Gli autori di questa lunga rielaborazione sono rimasti anonimi, preferendo scrivere sotto la tutela dell'auctoritas riconosciuta – Mosè, Salomone, Omero – piuttosto che rivendicare il copyright.



Una vicenda simile ha attraversato la storia della redazione dei vangeli o delle lettere paoline cosiddette “pastorali”. Il fatto è che, nel passato, l'idea che si aveva era quella mirabilmente sintetizzata dal detto di Bernardo di Chartres: “noi siamo come nani sulle spalle di giganti”. I “nani” spesso sceglievano deliberatamente di stare sotto il manto protettivo dei “giganti”, firmando le loro opere col nome di questi ultimi, certi che in tal modo avrebbero potuto alzare lo sguardo più in alto e più lontano. Per queste ragioni non è del tutto corretto parlare di "falsi", nel senso moderno del termine: chi scriveva non intendeva affatto realizzare un falso, ma porsi all'interno di un'opera collettiva, che testimoniava la fedeltà agli insegnamenti del maestro.   


Ma oggi, dopo che il '68 ha ucciso simbolicamene i padri, che senso ha ripararsi sotto un'auctoritas, sia essa Camilleri o Neruda? Può essere, come sì è detto, solo una furbata mediatica per collezionare più like. Ma forse – lo diciamo in punta di piedi – c'è una motivazione più profonda. Dopo 70 anni, dopo aver rivendicato la libertà assoluta dai padri, oggi, come figli prodighi, ci siamo ritrovati invece a contendere le ghiande ai porci per poter sopravvivere. E, stanchi della privazione delle radici, ricominciamo a sentire nei nostri cuori un'insopprimibile nostalgia della casa del padre.


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