Pubblicato il 25/04/2023
POLITICA

Festa della Liberazione: quei calatini liberi e forti che dissero no al fascismo



Sono limpide figure di uomini e donne, che negli anni bui del Ventennio si opposero al regime, pagando di persona la loro testimonianza e fedeltà agli ideali di libertà e giustizia. Ricordiamo chi fummo, per sapere chi siamo e chi vogliamo essere. I loro esempi di coraggio e dedizione alla causa della libertà siano le nostre radici, ma anche le nostre ali.    

di Giacomo Belvedere

Nel celebrare la festa della Liberazione del 25 aprile, non possiamo non ricordare il contributo alla lotta antifascista, che limpide figure di caltagironesi e calatini, uomini e donne, diedero negli anni bui del Ventennio, opponendosi al regime e pagando di persona la loro testimonianza e fedeltà agli ideali di libertà e giustizia. Li ricordiamo non solo perché è un dovere civico non dimenticare e perché non possiamo concederci il lusso di cancellare la nostra storia, ma anche per non smarrire la strada maestra segnata dalla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Ricordiamo chi fummo, per sapere chi siamo e chi vogliamo essere. Sapere da dove veniamo ci aiuta a comprendere meglio dove andiamo. I loro esempi di coerenza e dedizione alla causa della libertà siano le nostre radici, ma anche le nostre ali.    

L’ANTIFASCISMO DEI CATTOLICI CALATINI

Liberi e forti, così come li voleva Sturzo, e fieramente antifascisti. I giovani dell’Azione Cattolica calatina durante il ventennio fascista non si piegarono alle pressioni e alle intimidazioni subite dal regime. In un coraggioso ordine del giorno, votato in occasione del 1° Convegno diocesano dell’Ac, tenutosi nella Chiesa del Crocifisso a Caltagirone il 9-11 dicembre 1923, si condannarono le violenze squadriste a cui erano stati sottoposti i circoli cattolici. Si sentì la necessità di accentuare il carattere confessionale e apolitico della Federazione giovanile diocesana, in modo da evitare di coinvolgerla nelle agitazioni politiche, ma si rivendicò pure la sua irrinunciabile funzione di educazione alla politica. Tale caratterizzazione spiccatamente religiosa non evitò all’Ac calatina che gli strali del regime, a più riprese, si abbattessero su di essa e sui suoi dirigenti. «Constatate le persecuzioni – si legge nel documento – a cui in quest’anno sono stati fatti segno i nostri circoli da elementi della violenza fascista o pseudo fascista; considerata la preoccupazione assai comune in Sicilia di veder della politica o dei loschi fini personali in qualunque associazione nuova che sorga, anche se giovanile e con statuti e insegne di pura marca religiosa; avuto riguardo alla ignoranza religiosa ed allo spirito di diffidenza che domina in molti ambienti della Sicilia, per cui non si valorizzano, né il bisogno d’una formazione spirituale cristiana né quello dell’organizzazione, delibera di: 1. di mantenere alto e di propagandare il principio di confessionalità dei nostri Circoli; 2. di promuovere manifestazioni vere e frequenti di vita religiosa; 3. di non partecipare mai a manifestazioni politiche; 4. di educare i giovani ai doveri della vita politica, cioè all’attuazione dell’ideale del vero cittadino e patriotta».



UN ANTIFASCISTA IN CATTEDRA – Presidente della Gioventù Cattolica era allora un giovane professore di Lettere classiche, Luigi Marino, a cui il vescovo di Caltagirone, mons. Damaso Pio De Bono aveva affidato l’incarico nell’ottobre del 1922. Marino, classe 1896, fu un fiero e strenuo oppositore del regime. Aveva partecipato durante la Prima Guerra mondiale alle campagne del 1916-1917, meritandosi una decorazione al merito. Fu sul campo di battaglia che il giovane sottufficiale diede le prime prove di quella libertà, indipendenza, e insofferenza verso ogni forma di autoritarismo ottuso, che lo caratterizzeranno negli anni difficili del fascismo. Si rifiutò, infatti, nonostante la minaccia di essere deferito alla corte marziale, di ubbidire all’ordine dei suoi superiori di lanciare il suo battaglione alla conquista di una collina, assolutamente insignificante dal punto di vista strategico, ma esposta ai colpi di mortaio del nemico, che dilagava da ogni parte dopo la disfatta di Caporetto. Per molti anni ricevette le lettere riconoscenti dei suoi commilitoni, grati di aver loro salvato la vita e di non averli trattati da carne da macello.



Popolare della prima ora, dovette ben presto interrompere la sua attività politica con l’avvento del fascismo. L’ultima tessera del Ppi che si conserva nell’archivio di famiglia è del 1924. Il suo attivismo nel movimento cattolico continuò a Piazza Armerina, dove frattanto aveva ottenuto la cattedra di Lettere al ginnasio inferiore, destando i sospetti dei gerarchi fascisti, tanto più che il professore calatino si ostinava a non volere la tessera del P.N.F. Nel 1925 il Provveditore agli Studi Gravino tenne una concione di rito fascista a tutti i professori medi della città, esortandoli ad iscriversi al partito. «Disse, è vero, – ricorda Marino in un articolo apparso sulla «Croce di Costantino» nel 1953 – che bisognava farlo se ciò si sentiva nell’animo, ma aggiunse questa non velata minaccia: “Se qualcuno poi non si iscrive, tanto meglio: così distingueremo i buoni dai non buoni”». L’avvertimento era ad personam: «Egli sapeva bene che tra quei professori c’era solo il sottoscritto che non aveva voluto iscriversi, come poi ebbe a dire in una conversazione privata, a me successivamente riferita».


Rientrato a Caltagirone nel 1926 al Liceo Secusio, il giovane professore non rinunciò alla sua abituale franchezza e libertà di parola, anche quando si trattò di riprendere il suo vecchio docente di filosofia, il prof. Grassi, che si era lasciato andare ad apprezzamenti poco lusinghieri nei confronti del clero, propagandando inoltre una sorta di mistica fascista panteistica. In una lettera al preside del 1 giugno 1927, Marino riafferma la sua stima e riverenza verso il suo antico professore, ma ritiene di dover difendere la sua «dignità di uomo, di educatore, di cattolico»: «in cose simili io avrei protestato anche contro mio padre e mia madre e contro il mio più grande benefattore, giacché al disopra del padre e di ogni benefattore sta il Padre nostro che è nei cieli, Dio, che è padre e benefattore dell’umanità».

Nel dicembre 1933 il vescovo di Caltagirone, mons. Giovanni Bargiggia gli conferì nuovamente l’incarico di guidare la Presidenza federale delle associazioni giovanili di Ac. Contemporaneamente fu nominato Assistente ecclesiastico federale mons. Michele Tiralosi, che subentrò a mons. De Francisci.


LA CRISI DEL 1931 – Erano anni difficili. Nel 1931, nonostante il recente Concordato tra Stato e Chiesa, si era arrivati allo scontro diretto col fascismo che aveva sciolto tutti i circoli giovanili cattolici. Lo scontro poi era rientrato e si era giunti a un compromesso: la gloriosa Società della Gioventù Cattolica avrebbe dovuto mutare nome in Giac e non si sarebbe dovuta occupare di politica.  I contraccolpi di quei drammatici eventi s’erano fatti sentire anche a Caltagirone: molti dirigenti parrocchiali e diocesani dei vari rami dell’Ac si erano dimessi tra il 1929 e il 1931. Nonostante fosse intervenuto con una lettera di incoraggiamento alle associazioni giovanili cattoliche lo stesso mons. Bargiggia, nel dicembre 1931 la Presidenza Federale aveva restituito a Roma tutte le tessere dell’anno sociale 1931, suscitando l’allarmata reazione dei dirigenti nazionali. Marino venne chiamato ad una difficile battaglia, che assunse con piglio deciso, guidando coraggiosamente la Giac calatina per dieci anni. Furono gli anni in cui alla Presidenza nazionale della Giac venne chiamato L. Gedda. E geddiano può ben dirsi lo stile della seconda presidenza Marino: grande attivismo e visibilità esterna, attenzione agli aspetti organizzativi ed alla pastorale d’ambiente, rivendicazione e difesa ad oltranza della libertà educativa e dell’autonomia delle associazioni giovanili cattoliche rispetto al fascismo.

Nei dieci anni della Presidenza Marino, la Giac calatina non solo quadruplicò i suoi iscritti, ma fu anche in primo piano negli avvenimenti ecclesiali che segnarono la diocesi: il 1° Congresso catechistico diocesano del 24 aprile – 3 maggio 1936 e soprattutto il 3° Congresso eucaristico regionale e 1° diocesano del 5-9 maggio 1937, che vide un’imponente mobilitazione di migliaia di fedeli, convenuti a Caltagirone da tutta l’isola. La riuscita, oltre ogni previsione, di quest’ultima manifestazione suscitò il sospetto dei gerarchi fascisti, che videro nelle radiose giornate di maggio una sfida al regime.



Marino si rifiutava di portare durante le parate fasciste la camicia nera e rispondeva alle ottuse pretese del regime con la superiore ironia dell’intelligenza, indossando la divisa di ufficiale del regio esercito, nel quale aveva militato ed era stato decorato durante la Grande Guerra: il che equivaleva a rigettare l’accusa di scarso senso dello Stato. Una denuncia anonima sull’attività sovversiva del prof. Marino giunse il 25 luglio del 1935 al Ministro dell’Educazione Nazionale: il professore veniva accusato di diffondere a scuola il “verbo del disfattismo” e di frequentare le botteghe dei calzolai per parlare di politica, con chiara allusione ai fratelli Bauccio, noti comunisti. Forse anche in seguito a tale denuncia, Marino fu costretto a non portare il distintivo dell’Ac a scuola.


VIETATO PORTARE IL DISTINTIVO DELL’AC  – Il 18 dicembre 1938, ricorrendo il 70° della fondazione della Giac, la Presidenza diocesana organizzò una manifestazione celebrativa, che si tenne nel Seminario diocesano. In quell’occasione, Marino tenne un fiero discorso, in cui esortò i giovani cattolici ad essere “baluardo alzato contro gli attacchi sferrati dai nemici di Cristo”: «Ricordatevi che qui non c’è posto per i neutrali: o con Cristo e per Cristo o contro di Cristo… La gioventù di Ac ha scelto il suo posto con decisa fermezza e lo ha giurato a sé stessa e a Dio: con Cristo fino agli ultimi aneliti della vita». Non c’era bisogno di molta fantasia per vedere nelle parole del Presidente federale, noto per le sue idee antifasciste, una sin troppo chiara allusione al fascismo. In seguito a questi fatti, il locale Fascio segnalò tale attività sospetta al Federale di Catania, che ordinò di tenere sotto stretta sorveglianza il professore calatino. Anche il Provveditorato fu interessato alla questione, a seguito di una denuncia del Nucleo Universitario fascista, e fece pressione, tramite il Preside del Liceo Secusio, perché Marino non portasse più pubblicamente, “nemmeno a passeggio”, il distintivo dell’Ac, la cui esibizione gli era stata già da tempo interdetta a scuola.



VIETATO CRITICARE LE LEGGI RAZZIALI

Analoga sorte toccò all’Assistente federale mons. Michele Tiralosi. Una sua predica, tenuta nella Chiesa del Purgatorio di Caltagirone, in cui si commentava il noto passo di Col 3, 11 «Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti», venne interpretata come una critica alle leggi razziali del 1938. Il regime infatti inviava suoi emissari incaricati di spiare gli elementi ritenuti sovversivi. Tiralosi fu costretto a lasciare l’insegnamento religioso al Ginnasio e la direzione spirituale della Giac: solo il trasferimento urgente a Vizzini gli evitò il confino. Gli successe mons. Giuseppe Nicotra, il battagliero direttore del quindicinale «Vita», da lui fondato nel 1936. Ma anche il neo Assistente non fu gradito al regime, tanto è vero che nel 1941 gli fu sequestrato e chiuso il giornale, e ritirata la tessera di giornalista, per aver ospitato un articolo ritenuto gravemente offensivo per il Duce. Nell’articolo il direttore di «Vita» sottolineava che “finalmente” il Duce si era ricordato di Caltagirone. Quell’avverbio gli costò il giornale.



IL CORAGGIO DELLE DONNE – Che nei circoli giovanili dell’Azione cattolica calatina si respirasse un’educazione immune dai veleni dell’ideologia fascista del “libro e moschetto”, lo dimostra la vicenda di Angela Cavalli. Nata a Scordia il 5 dicembre 1913, era dunque giovanissima negli anni del ventennio fascista, quando iniziò il suo impegno nella Gioventù femminile di Ac. Non si sposò per scelta: in un contesto che marcava fortemente i ruoli maschili e femminili, riservando alle donne, a cui era precluso il diritto di voto, l’ambito della vita familiare, era assai difficile per una donna riuscire a coniugare la passione politica con gli affetti. La chiesa rappresentava, per una giovane della piccola borghesia di provincia, il luogo dove più agevolmente si poteva soddisfare il desiderio di vita pubblica e di impegno sociale.



Il suo attivismo ecclesiale destò il sospetto dei gerarchi locali che la condannarono al confino. La sanzione non le venne comminata, perché minorenne e perché la Federazione provinciale del Fascio comprese che sarebbe stata controproducente. Restò tuttavia controllata a vista, come altri dirigenti dell’Ac diocesana del tempo. Non ebbe tuttavia il sostegno dei preti, che scelsero per lo più la via del silenzio accomodante. Negli anni duri del conflitto mondiale e del dopoguerra, organizzò con le giovani di Ac una Cucina economica: si raccoglievano legumi, pasta, patate, olio per dare un pasto caldo giornaliero alle famiglie povere. Il 2 giugno 1946 si batté per la Repubblica, assieme a mons. Gaetano Pernice, segretario di don Sturzo. Ma la loro posizione fu isolata negli ambienti cattolici locali, apertamente schierati per la monarchia.


Non sorprende dunque che, caduto il fascismo, anche a Caltagirone, ci si mosse subito, pensando al futuro assetto politico-sociale. Una nuova classe politica, vaccinata contro la propaganda del regime, era maturata frattanto nei circoli cattolici. Nel 1943, dall’agosto all’ottobre, si tennero nella Villa Montevago delle riunioni per la ricostituzione del partito cattolico a Caltagirone, a cui partecipò, tra gli altri, il fratello di Marino, l’avv. Riccardo. L’ispirazione veniva dal cosiddetto “Codice di Camaldoli”, il documento di politica sociale e economica stilato nel luglio 1943 da circa 50 esponenti dell’Azione cattolica che gettò le basi e le linea guida della politica economica della Democrazia Cristiana.


IL “MEDICO DEI POVERI”



Un luminoso esempio di coerenza e fedeltà agli ideali di giustizia sociale e libertà fu  dato da Giambattista Fanales, detto “Titta”, chiamato il “medico dei poveri, perché prestava la sua opera di professionista gratuitamente, quando i suoi pazienti non potevano sostenere le spese mediche per le precarie condizioni economiche. Militante comunista, fu arrestato nel 1926, a soli 26 anni, e condannato dal Tribunale Speciale a sei anni di carcere che scontò interamente, poiché rifiutò sempre, per rimanere fedele ai suoi ideali, di sottoscrivere le domande di grazia che gli venivano sollecitate da esponenti del regime fascista. Sei anni di pena scontati per intero in varie carceri italiane: Ustica, Civitavecchia, Volterra, Catania, Roma ed Augusta, dove finì di scontare la pena.


Nel carcere di Civitavecchia condivise la cella  con Umberto Terracini, che fu in seguito uno dei componenti della Costituente e padre fondatore della Repubblica, con cui strinse una duratura amicizia.


Anche in carcere diede prova della sua umanità, spendendosi per dare aiuto e conforto agli altri detenuti. Terracini in una testimonianza scritta in occasione del decennale della morte di Fanales, e consegnata al Senatore Giuseppe Vitale, affinché la leggesse “in sua vece, essendo egli impedito dagli anni e dai malanni”, ricorda con affetto il “medico dei poveri”: “Scoprimmo così che anche in carcere Titta Fanales non aveva smesso di donare agli altri quello che poteva, curando i suoi carcerieri e le loro famiglie, arrivando persino a dare il suo materasso ad un compagno che stava male”.


Uscito dal carcere, fu sottoposto a tre anni di sorveglianza speciale e inoltre l'interdizione ad esercitare la professione medica. Dopo la Liberazione, continuò la sua battaglia per la causa dei poveri e degli emarginati e per gli ideali di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di uguaglianza, come militante, dirigente, amministratore, parlamentare P.C.I.



PARTIGIANI PER LA LIBERTÀ

Ci fu chi pagò con la propria giovane vita la lotta antifascista. Come Rosario Pitrelli, giovane martire della libertà, nato a Caltagirone 17 novembre 1917 in via Ocarella 6, dove una lapide lo ricorda. Aviere scelto, collaborava col partito Comunista clandestino durante l’occupazione tedesca. Fu arrestato il 28 gennaio del 1944, perché trovato con opuscoli e manifesti sovversivi antinazisti e antifascisti. Torturato con ferocia in via Tasso, fu fucilato il 24 marzo del 1944, con 335 civili e militari italiani, dalle SS di Kappler alle Fosse Ardeatine.



Anche Giuseppe Cataldo versò il suo sangue a soli 24 anni perché l’Italia fosse liberata dal nazifascismo. Caltagironese, partigiano, fu ucciso dai nazisti all'età di 24 anni a Cucco Montenegrino (Varese).


Studente universitario della Facoltà di Lettere, fu chiamato alle armi durante la seconda Guerra mondiale. Dopo l’8 settembre 1943 e la firma dell'Armistizio tra il Maresciallo Badoglio e gli alleati, a Cassibile, Cataldo si arruolò nelle formazioni partigiane della provincia di Varese, che operavano già prima dell'8 Settembre.


Catturato dai tedeschi delle SS l'11 Novembre del 1943, fu ucciso, dopo 6 giorni di terrificanti ed indicibili torture, assieme ad altri 7 partigiani, catturati con lui, e sepolto in una fossa comune nei pressi di un bosco.

Aveva già scritto la tesi su Luigi Pirandello.

La via Tenente Cataldo, collega Via Bungavillea con Via Mario Sturzo, lo ricorda a Caltagirone.


Angelo Aliotta, nato a Caltagirone il 22 aprile 1905 fu fucilato a Cerreto di Zerba (Piacenza) il 29 agosto 1944. Militante nel  partito Comunista partecipò alle azioni degli Arditi del Popolo. Costretto ad emigrare in Francia e Svizzera, rientrò clandestinamente in Italia nel 1927, ma fu arrestato e condannato a 3 anni di reclusione dal Tribunale speciale. Tornato alla clandestinità, dopo l'armistizio, organizzò a Milano squadre di gappisti ed assunse il comando di un distaccamento della 3a GAP. Si unì alle formazioni partigiane dell'Oltrepò Pavese, distinguendosi per audacia e capacità militare. Con il nome di battaglia fu Diego comandò la 51a Brigata Garibaldi “A. Capettini”. Ferito in combattimento fu catturato dai tedeschi e consegnato alle Brigate Nere che lo fucilarono insieme con altri tre partigiani ugualmente feriti, dopo averlo seviziato.
Una Divisione Garibaldi, formata da tre Brigate, di circa 800 uomini, fu dato intitolata a suo nome. La Divisione Aliotta sarebbe stata protagonista della vittoriosa battaglia di Varzi.



A Palagonia è nato il 17 febbraio 1924 Nicolò Di Salvo, detto Cola. Dopo l’armistizio del’8 settembre 1943 fu preso prigioniero dai tedeschi a Parma nella caserma dove era militare, nel XIX cavalleria. Fuggito, ad appena 20 anni, salì in montagna unendosi alla Resistenza partigiana, raggiungendo il fratello Francesco in Emilia Romagna e combattendo negli Appennini modenesi di Montefiorino nella brigata Garibaldi. Il suo nome di battaglia era Corsaro.



Molte le onorificenze ricevute durante la sua lunga vita: il certificato al Patriota conferitogli dal generale comandante in capo delle Armate Alleate in Italia, la Medaglia della Liberazione rilasciata dal Ministero della Difesa, le tante targhe, tributate  dalle amministrazioni di Palagonia, Scordia e Caltagirone, la targa della federazione catanese del partito socialista. Infine l’elefante d’oro conferito dal sindaco di Catania. È morto nel giorno di Pasqua del 2018, a meno di due mesi dai festeggiamenti per il raggiungimento dei 94 anni. «Custodite questa memoria storica – ripeteva nei suoi molti incontri con i giovani - e le ragioni della nostra lotta e sarete fieri di farlo, perché la storia siamo noi, siete voi. Fate la storia, perché ricordando il passato ci possa essere un futuro di speranza». 

Ma ricordiamo ancora i partigiani Giuseppe Vella, nato a Caltagirone il 16 maggio 1921 e ferito a morte il 5 marzo 1945 a Montiglio Rocca (Asti); Antonino Scalogna, nato a Caltagirone il 26 aprile 1926 e morto il 25 giugno 2013;  Giuseppe Burtone, nato a Militello in val di Catania il 14 ottobre 1920 e morto il 26 marzo 2009.

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