Pubblicato il 31/12/2016
CULTURA

Anno che viene, anno che va



Il futuro lo si deve saper leggere nel passato, nelle sue gioie e nei suoi dolori. È lì che sboccia, ma non ce ne accorgiamo, perché i nostri occhiali scuri vi vedono solo il nero.
di Giacomo Belvedere

Nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, scritto nel 1832, Leopardi immagina che un passante si soffermi a parlare con un popolano, intento a vendere sulla via calendari per l’anno nuovo, e con lui discorra del desiderio che avrebbe ognuno di ritornare indietro negli anni; a patto però di poter trascorrere una nuova esistenza, ignota ancora del tutto, e non già quella vissuta. Sarà per questa voglia contraddittoria di ricominciare daccapo, che festeggiamo il nuovo anno, gettando via le cose vecchie, illudendoci con questo rito propiziatorio di poter seppellire il passato e azzerare i conti con la vita? Ci comportiamo come chi dichiara bancarotta perché non vuole pagare i debiti contratti in speculazioni azzardate.

Poco male, se il rito non si ripetesse sempre uguale ad ogni fine anno. L’ammissione di un fallimento può essere scusata, ma se è recidiva, è un modo infantile di eludere i problemi. E i problemi, si sa, non sempre possono essere risolti, ma sempre devono essere affrontati, anche quando la soluzione è al di fuori della nostra portata. Anno nuovo, vita nuova, si dice. E invece ad ogni anno nuovo ricadiamo nei vecchi errori di sempre. Salvo, poi, gettar tutto nella spazzatura, quando ci viene chiesto un bilancio. Ci illudiamo così di fare pulizia, ma in realtà facciamo solo il vuoto.

Non comprendiamo difatti che il futuro è una promessa che non delude, se non rinneghiamo il passato, nelle sue gioie e nei suoi dolori. «Melius ostendimus nova, si diligentius vetera perscrutamur»: comprendiamo meglio il futuro, se guardiamo con più attenzione al passato. Così suona una massima di Gioacchino da Fiore, un monaco vissuto a cavallo tra il XII e XIII secolo. Come a dire: il futuro lo si deve saper leggere nel passato. È lì che sboccia, ma non ce ne accorgiamo, perché i nostri occhiali scuri vi vedono solo il nero.

Non si ricomincia mai da zero, ma sempre da tre: passato, presente e futuro sono l’intreccio di cui è fatta la nostra vita. Il cui carico è leggero se accettiamo di assumerlo in perfetta letizia con la libertà di chi accetta la vita come un dono e una scommessa. Nella tradizione millenaria della Chiesa cattolica, è a fine anno che si canta il Te Deum di ringraziamento. Forse solo chi non è ingrato verso la vita vissuta, può brindare con levità al nuovo anno e ricevere in abbondanza dal cielo le benedizioni per l’anno che verrà.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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