Pubblicato il 28/03/2018
CRONACA

Torna a casa la salma del rumeno ucciso a Caltagirone



Il test del Dna ha definitivamente confermato l’identità di Costel Ciobanu, l’uomo trovato morto, decapitato e orrendamente mutilato agli arti superiori, in contrada Mazzone a Caltagirone, il giorno dell’Immacolata dell’anno scorso. La salma è stata consegnata alla sorella che ha provveduto al rimpatrio in Romania. Ignoto ancora il movente del delitto.


di Giusi Scollo–Giacomo Belvedere


“Ho paura di non poterlo riportare a casa. Non voglio che mio fratello sia  sotterrato in Italia”. Laura Ghirãu, sorella di Costel Ciobanu, il rumeno trovato morto a Caltagirone la mattina dell’Immacolata dell’anno scorso, aveva perso le speranze di poter seppellire in patria il fratello. Più volte ha contattato la nostra testata per avere rassicurazioni. Ma il 16 marzo scorso ci ha espresso tutta la sua apprensione. Aveva un desiderio fisso: “riportare la salma di mio fratello a casa sua per fargli i funerali come si fa per un buon cristiano”. E non capiva il perché di tante lungaggini burocratiche. Sabato 24 marzo ci ha dato la buona notizia: “Finalmente mio fratello è partito per la Romania”. Consegnata alla famiglia, dopo il nulla osta del giudice, la salma di Costel Ciobanu ha potuto intraprendere l’ultimo viaggio verso la patria per riposare in pace. E la famiglia è uscita dal limbo, da quella terra di nessuno di chi non ha una tomba su cui piangere il caro estinto e poter così elaborare il lutto. 

LA CONFERMA DEL DNA – Il corpo è rimasto in questi mesi a disposizione dell’autorità giudiziaria, per gli accertamenti dal caso sulle cause del decesso e sull’identità dell’uomo. L’omicidio è apparso da subito un rebus al comandante della stazione dei Carabinieri calatina, Sergio Vaira, e agli uomini del Nucleo Operativo di Caltagirone, diretto dal luogotenente Tommaso Cilmi, i primi ad accorrere sul luogo, allertati da un passante uscito a far passeggiare il cane. Davanti ai loro occhi si è presentata la scena di un film horror: l’uomo era riverso bocconi e orrendamente mutilato, probabilmente per impedirne l’identificazione: privo della testa, del braccio sinistro e di parte della spalla sinistra e con il braccio destro ridotto a un moncherino, con le sole ossa e la carne forse spolpata dai cani randagi. Dai primi rilievi della Scientifica e dall’ispezione cadaverica del medico legale, dott.ssa Maria Francesca Berlich, sono giunte poche indicazioni, ma nessuna utile a risalire all’identità: le mutilazioni erano nette, fatte con un’arma molto affilata, come un’ascia o un machete. Dall’esame autoptico è emerso che probabilmente la causa della morte, avvenuta da almeno 24 ore e in altro luogo, era stata l’amputazione della testa. Un delitto che ha sconvolto Caltagirone per l’efferatezza e la barbarie con cui ci si è accaniti sulla povera vittima.

È stata la sorella che ha permesso l’identificazione del corpo. Preoccupata perché il fratello non si faceva più sentire, aveva prima lanciato il suo disperato appello in un gruppo social di rumeni in Italia e quindi contattato i Carabinieri per denunciare la scomparsa del fratello. Decisivo per risalire all’identità è stato un giubbotto blu della Petrom, la più grande compagnia rumena di petrolio e gas, che la vittima indossava: un regalo di un fratello. È stato l’indizio che ha fatto ritenere la sua denuncia molto attendibile. La donna ha raccontato, inoltre, agli inquirenti che il fratello aveva un tatuaggio all’avambraccio sinistro, che ne spiegherebbe l’amputazione, e una protesi dentaria.

La testa dell’uomo con una protesi dentaria, così come detto dalla sorella, è stata ritrovata, nei giorni di Natale, a circa 200 metri dal luogo del primo rinvenimento, su di un terreno collinare, probabilmente portata sul posto dai cani randagi. Laura Ghirãu è stata in Italia, dopo Natale, per incontrarsi con gli inquirenti e sottoporsi al prelievo salivare. Dalla comparazione dei dati del Dna con quelli della vittima è venuta l’assoluta certezza sull’identità dell’uomo, su cui oggi non ci sono più dubbi.

IGNOTI GLI ASSASSINI – Ignoto, invece, resta ancora  il movente dell’omicidio. Nessuna ipotesi è esclusa, ma la pista della criminalità organizzata non sarebbe ritenuta attendibile. La mafia, quando uccide in modo eclatante, non nasconde l’identità della vittima, proprio perché il messaggio minatorio deve essere eloquente; se invece l’omicidio deve rimanere occulto, ricorre alle cosiddette “morti bianche”, e nulla fa ritrovare del corpo della vittima. Più probabile l’ipotesi di un delitto maturato nell’ambito della sfera personale. Non ha molto credito nemmeno la spiegazione di un incidente sul lavoro, che poi si sarebbe tentato maldestramente di camuffare.

“Non usciva dall’azienda dove lavorava, come poteva avere nemici? Se c’erano nemici, poteva essere solo lì, da loro” –  ci ha detto Laura Ghirãu nell’intervista esclusiva che ci ha concesso a fine anno. Ed è proprio sull’ambiente in cui Ciobanu viveva in Sicilia, che gli inquirenti stanno cercando indizi che possano far luce sul rebus della morte.   

CHI È COSTEL CIOBANU Costel Ciobanu era nato a Vaslui, in Romania, il 24 giugno del 1966. Dal mese di settembre 2011 Ciobanu si trovava in Sicilia. Aveva trovato lavoro in un’azienda zootecnica (allevamento di bovini, ovini con trasformazione e produzione di prodotti caseari), ubicata al confine tra il calatino e la provincia di Siracusa. Da quel posto, in pratica, non si è mai mosso. Nell’azienda ha lavorato anche un figlio dell’uomo, che vi è rimasto fino a 4 mesi prima dell’omicidio. Lavoro nero, senza nessun diritto, dalle 4 del mattino fino alle 18/19 di sera per uno stipendio di 650 euro. Quasi una riduzione in schiavitù. Con i soldi messi da parte e inviati a un fratello in Romania, aveva comprato una casa, dove sognava di abitare, una volta rientrato in patria. Ad agosto dello scorso anno, si ha un cambiamento: non ha mandato più soldi. Ma ripeteva alla sorella che nell’estate del 2018 sarebbe tornato definitivamente a casa.  Il sogno di Costel Ciobanu è stato bruscamente stroncato da ignoti Certo è che l’uomo aveva deciso di tagliare i ponti con quel lavoro da schiavi.

A metà dicembre dell’anno scorso, a seguito di un’ispezione dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Catania e dei Carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Caltagirone, si è scoperto che nell’azienda lavoravano 5 rumeni, reclutati col metodo del caporalato e costretti a lavorare in condizioni disumane. I militari hanno arrestato in flagranza due fratelli di 50 e 45 anni e denunciato il padre 81enne. I cinque lavoratori rumeni, alcuni con famiglie numerose alle spalle a cui inviare soldi in terra natia, altri facilmente manovrabili perché orfani, erano impiegati totalmente in nero, senza copertura sanitaria e previdenziale, e con turni massacranti di oltre 15 ore al giorno (inizio alle 4:00 del mattino), 7 giorni su 7, sottopagati – circa 1 euro all’ora – e ospitati tutti in una stanza di pochi metri quadri: un vero e proprio tugurio, con le mura ricoperte da muffa ed un unico bagno ridotto in pessime condizioni igienico sanitarie. Il tutto posizionato proprio vicino ad una delle stalle dov’erano ricoverati alcuni degli animali.

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