Pubblicato il 08/03/2020
RELIGIONE / DIOCESI

Mons. Peri: “Per vincere la paura del Coronavirus leggete, scrivete, pregate”



“Leggere per tornare a ringraziare, scrivere per ritornare a pensare, pregare per ritornare a vivere”. Così nel suo messaggio il vescovo di Caltagirone mons. Calogero Peri “Offriamo al Signore anche il non potere andare a Messa, impegnandoci a viverla, fin da adesso, personalmente e insieme, quando ci sarà nuovamente possibile, con maggiore impegno e convinzione”.


“Leggere per tornare a ringraziare, scrivere per ritornare a pensare, pregare per ritornare a vivere”. Sono le tre “armi” con cui, secondo il vescovo di Caltagirone mons. Calogero Peri, si può vincere la paura del Coronavirus. “Offriamo al Signore anche il non potere andare a Messa, impegnandoci a viverla, fin da adesso, personalmente e insieme, quando ci sarà nuovamente possibile, con maggiore impegno e convinzione”.

IL MESSAGGIO DEL VESCOVO

Cari Amici,

purtroppo siamo ancora in tempo di coronavirus, anzi le ultime disposizioni sono ancora più   pesanti, siamo tutti sulla stessa barca, sulla stessa terra, e, ovunque siamo nel mondo, un po’ tutti in quarantena.

Ritrovandoci a vivere questo tempo strano, ho pensato di rivolgermi a voi con questo messaggio. Sono delle riflessioni che, non potendo condividere di presenza, per le ragioni che conosciamo, affido a questa scrittura.


All’improvviso ci siamo svegliati tutti e contemporaneamente come da un sogno e, traumaticamente, abbiamo trovato il mondo diverso. Da un giorno all’altro le abitudini e i comportamenti più quotidiani ci sono stati sconsigliati o vietati. Ritrovandoci tutti dentro una serie di divieti, e con del tempo in mano, ho pensato di intrattenermi con voi sulle tante cose che, invece, anche o soprattutto in tempo di coronavirus, si possono continuare a fare, intensificare o riscoprire.


Quello che da qualche mese viviamo è uno shock, un tempo ed una situazione che per tanti aspetti oltre a penalizzarci fuori, socialmente, economicamente e nelle relazioni, ci fa paura e ci paralizza dentro. Se lo vogliamo, però, questa sospensione che non sappiamo quanto durerà, può diventare, un’opportunità, un’occasione preziosa, una dura e bella lezione da conservare.


Non solo per ora, ma per sempre: una lezione da non dimenticare più.

Non solo per qualcuno, per un gruppo, per un popolo, ma per tutti e in tutto il mondo.

Quella che ci sta davanti è, inoltre, una sfida da affrontare nello stesso tempo, senza prima per qualcuno e dopo per altri. Ci eravamo illusi che era un pericolo lontano da noi, perché era apparso in Cina. Solo per un po’ ci siamo sentiti al sicuro, graziati o indenni, ma così non è stato.

 

In ottanta giorni il virus ha già fatto il giro del mondo e non si è stancato di correre, ingrossando le fila del suo funesto corteo di contagiati e di morti. Il coronavirus, come abbiamo visto, ha spazzato via i nostri schemi, si irride delle nostre barriere sanitarie, dei nostri confini, delle nostre interminabili distinzioni. Al di là delle nostre sterili polemiche, da nord a sud, da oriente ad occidente, ricchi e poveri, bianchi e neri, siamo tutti potenzialmente e realmente alla sua mercé. Il virus ci tratta tutti, senza distinzione alcuna, per quello che siamo, ci riconosce semplicemente come uomini. Il virus, infatti, non è razzista, sovranista, populista, xenofobo, non fa distinzione alcuna, tutti vengono prima e dopo allo stesso modo. Ci ha fatto capire che se ci dispiace che i nostri connazionali vengono respinti, non è neppure bello quando lo facciamo noi con gli altri.


In questa situazione di emergenza siamo continuamente martellati da una raffica di divieti che ci vengono suggeriti o imposti da chi sta in alto in alto, nella stanza dei bottoni, o anche vicino a noi, nella porta accanto. Alla fine, sapere che lo fanno per il nostro bene, per prendersi cura della nostra salute, non cambia molto la realtà e la sensazione, ci sentiamo un po’ tutti imprigionati e disarmati. Questo piccolo invisibile mostro, che di regale ha solo il nome, ci tiene tutti in scacco, ci fa sentire impotenti. Viviamo una situazione generale e generalizzata, reale e surreale insieme, che non immaginavamo e per la quale non siamo né preparati né pronti.


Per contrastarlo ci atteniamo alle indicazioni che ci vengono fornite ed aggiornate in continuazione. Divieti, limitazioni, restrizioni nei musei, nei cinema, negli stadi, nei supermercati, a scuola, in casa e anche in chiesa. Quando addirittura certi luoghi di incontro non sono stati chiusi, negli altri si fa espresso divieto di avvicinarsi, di toccarsi, di darsi la mano, di abbracciarsi, di baciarsi. Nelle chiese, quelle che sono rimaste aperte, non ci si segna più con l’acqua benedetta, non ci si scambia la pace e per tutto il resto si rimane, comunque, a distanza di sicurezza. A comportarsi così nei nostri confronti in tempo di pace, avremmo detto: “Ti sembro appestato? Ho forse la lebbra?”. Sì, proprio così, siamo contagiati in numero crescente e potenzialmente tutti contagiabili senza eccezione.


Per questo tutti, senza eccezioni, dobbiamo fare con serietà il massimo sforzo per arginarlo, per rispettare noi stessi e gli altri, specialmente i più fragili, accogliendo di buon animo tutte le rinunce o le privazioni che saranno necessarie. Ogni cosa dobbiamo viverla come il più grande e concreto gesto di amore che possiamo fare all’altro. Facciamolo sapendo da cristiani che anche questo accorgimento, come ci ha detto Gesù, lo facciamo a lui. Riconosciamolo nell’altro, amiamolo nell’altro, custodendolo, servendolo, facendo di tutto per prenderci cura di chi ci sta accanto, testimoniando, anche in forza della nostra fede, il nostro impegno e il nostro servizio per tutti quelli che incontriamo sul nostro cammino, per essere veramente e finalmente per l’altro, chiunque egli sia. In questo spirito offriamo al Signore anche il non potere andare a Messa, impegnandoci a viverla, fin da adesso, personalmente e insieme, quando ci sarà nuovamente possibile, con maggiore impegno e convinzione.


Ma comportandoci in questo modo, senza comunicare e senza socializzare come siamo abituati a fare, finiremo per essere estranei gli uni agli altri? No, questo no, perché dipende da noi, da ciascuno di noi. È vero che non possiamo salutarci toccandoci, ma possiamo riscoprire meglio il valore del saluto, la vicinanza del cuore e non delle mani, l’affetto sincero o l’amore al posto delle abitudini. Insomma, se vogliamo possiamo riscoprire e verificare il contenuto delle cose che facciamo sempre, e che magari facciamo con superficialità o senza apprezzarne il valore. Non è cosa da poco tornare a pensare e a riflettere sui nostri comportamenti di sempre: sarebbe bello rivalutare lo stare in casa, in famiglia, il saluto, la preziosità di un gesto, l’intenzione che ci avvicina. Insomma, se vogliamo questa situazione ci può spingere ad apprezzare le cose scontate, che scontate non sono mai o non lo devono essere; ci può aiutare a rendere ogni cosa quella che è e deve essere, a farla brillare di nuovo.


Sì, ci sono delle cose che possiamo fare proprio ora, mentre non possiamo fare quelle che abbiamo sempre fatto. In ogni caso, anche queste abitudini le dobbiamo fare, e dovremmo continuare a farle, con uno spirito nuovo. Dobbiamo verificare se c’è mente, anima, cuore nei nostri gesti e, se non ci sono, dobbiamo metterceli anche quando l’emergenza del coronavirus sarà passata. Ci può essere più verità in una intenzione di saluto che non si può esprimere, che in un gesto di affetto distratto. Tanto di più, in quello che non facciamo per rispetto e protezione dell’altro, che in un’abitudine che continuiamo a ripetere per superficialità e menefreghismo. Proprio così! C’è più affetto, più amore pur nella mancanza del gesto che lo esprime se siamo più presenti, più vigili, più attenti, se in quel che facciamo ci siamo totalmente.


Con questo non vogliamo e non dobbiamo banalizzare le manifestazioni, i sentimenti e il valore dei gesti. Certamente i gesti, il contatto, la fisicità, e noi italiani ne siamo maestri, sono importanti, ma è più importante quello che significano, quello che esprimono, quello che ci sta dietro, anzi quello che ci sta dentro, specialmente dentro di noi, dentro la nostra testa ed il nostro cuore. Ecco perché, seppure forzato e pericoloso, questo tempo di sospensione inaspettata è importante per verificare se e cosa c’è o è rimasto dentro noi.


1. Leggere, 2. Scrivere, 3. Pregare.

In questa prospettiva, proprio in questo tempo di divieti, voglio offrire a noi tre suggerimenti, tre cose che possiamo fare anche contagiandole, anzi invitandoci a contagiare gli altri. Lo so che l’elenco potrebbe essere tanto più lungo e tanto diverso, ma incominciamo almeno da queste: 1. Leggere, 2. Scrivere, 3. Pregare.

Leggere per tornare a ringraziare, scrivere per ritornare a pensare, pregare per ritornare a vivere.


Chi scrive pensa sempre, e pensa anche a dei potenziali lettori. Vuole per questo impiantare una ipotetica relazione con chi avrà in mano il testo, e a sua volta chi leggerà realizza e dà vita a questa relazione. Da qui penso alla gratitudine che dobbiamo nutrire per lo scrittore che, pur non conoscendoci, ha pensato e ci ha pensati. Se, poi, il libro che leggiamo ci aiuta ad essere più umani, la nostra gratitudine deve essere più grande e più convinta. In un contesto culturale in cui non abbiamo più tempo per leggere e i libri sono in disuso, l’occasione di dovere stare più a lungo in casa ci può aiutare a riscoprire l’importanza della lettura e della gratitudine.


Se vogliamo fare un ulteriore passo in avanti, possiamo ritornare ad impugnare la penna o a martellare su una tastiera. Possiamo ritornare a scrivere, e per farlo dobbiamo ritornare a fermarci, a pensare e a riflettere. Non abbiamo avuto tempo e voglia per farlo? Ora, volenti o nolenti, abbiamo tempo, e se non abbiamo voglia, dobbiamo farcela venire. Se ci rimettiamo a scrivere, ci accorgeremo quanto è salutare per noi e quanto sia un buon antidoto per sconfiggere il coronavirus, fosse solo perché non ce ne stiamo in giro. Soprattutto ci aiuterebbe a sconfiggere la paura e la depressione che non ci fanno vivere. Scrivere ci costringe a pensare con la nostra testa, a pensare a noi, a pensare anche agli altri, spesso ignorati o trascurati dalla banalità dei nostri comportamenti. Non riceveremo il premio Nobel per la letteratura, ma sicuramente tanta umanità in più.


Ritorniamo anche a pregare con il cuore più che con le labbra e le parole. Facciamolo come in questo tempo di quaresima siamo invitati a farlo. Riscopriamo l’interiorità, quella nostra, la stanza segreta del proprio cuore, che proprio per questo dovremmo frequentare, chiudendo la porta e ritrovandoci non solo con il nostro io, ma soprattutto con il nostro Dio. Possiamo stare semplicemente in casa, o possiamo scegliere anche di aprire porte che da tempo abbiamo trascurato. La preghiera ci porta contemporaneamente dentro di noi e dentro di Dio, e con questo doppio movimento ci porta dentro anche gli altri. In una esperienza come quella che stiamo vivendo, in cui tocchiamo tutta la nostra impotenza, il nostro limite, la caducità che ha la nostra vita, non abbiamo bisogno di ricette consolatorie, abbiamo bisogno di Dio, della sua Parola, abbiamo bisogno di speranza e di salvezza non solo dal coronavirus, ma nel e per il coronavirus.


Abbiamo bisogno di non sentirci soli e di sentire che qualcuno, e solo Dio può farlo, ci assicuri che comunque sarà accanto a noi, come e anche diversamente da come possono fare le persone che ci vogliono bene. Lasciamoci interrogare dalle tante domande che gli rivolgiamo. Lasciamoci pure inquietare dal suo silenzio, dalla percezione della sua distanza, ma anche dalla mancanza, per la nostra percezione, di una sua risposta al perché di tutto questo. Infatti, se è vero che Dio non ci sta castigando con il virus, non per questo Dio non c’entra, perché sicuramente vuole che capiamo, che ci interroghiamo, che siamo più uomini e credenti. E noi come figli dobbiamo prendere tutto questo sul serio.


Condivido il mio augurio.

Ognuno, attingendo anche alle risorse che non sa di avere, e che nelle emergenze riaffiorano, incominci a confezionare tutti i tipi di anticorpi contro il nostro coronavirus. Attrezziamoci per picconare e sgretolare la sua infinitesima grandezza, anzi piccolezza che, però, ci tiene tutti in pugno ed in più soggiogati al suo strapotere anche mediatico. Ne parlano, ne parliamo tutti e in tutto il mondo, ogni giorno, tutto il giorno e tutti i giorni. Non c’è da scherzare, perché la sua forza è la paura della morte che evoca, che porta e che produce.


Ma ne vogliamo parlare diversamente?

Lo vogliamo guardare con altri occhi, dove la nostra fede non ha un ruolo secondario?

Noi vogliamo contrastarlo con la forza della vita, dell’intelligenza, della scienza, della fede e della fiducia che abbiamo in Dio nostro Padre, ringraziando tutti coloro che si prodigano per combatterlo e sconfiggerlo, per aiutare i contagiati a farlo e i sani a difendersi. Lo vogliamo affrontare pure con la nostra dignità di creature, di uomini deboli e forti, contingenti ed eterni, fragili ed immortali. Se questa consapevolezza, come capita ai viandanti della storia, come capita a noi, qualche volta e in qualche tempo e situazione l’abbiamo persa, perché l’uomo nella prosperità non comprende, ora anche a causa del coronavirus la vogliamo recuperare e mettere in campo.


Buon combattimento a tutti, con la schiena dritta e la testa alta, per contemplare da uomini e da credenti che la nostra liberazione è, comunque, sempre vicina.

A tutti voi, soprattutto in questo tempo, la mia vicinanza e il mio incoraggiamento.



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