Pubblicato il 25/02/2020
ATTUALITÀ

L’Italia nel panico ai tempi del coronavirus



Il racconto del contagio, dell'ossessione e del panico da coronavirus, fra cronaca, storia e letteratura.

di Giacomo Belvedere

Quando il morbo arrivò in Lombardia, colse tutti di sorpresa. Era un morbo di importazione, che nessuno si aspettava colpisse anche Milano. Si cercò invano il “paziente zero” che aveva portato il morbo in città, ma le ipotesi in merito non vennero mai suffragate con certezza. E, in ogni caso, a contagio avvenuto, era una questione del tutto irrilevante.


Le autorità politiche e sanitarie brancolavano nel buio e ci fu chi peccò di negligenza o di sottovalutazione del pericolo: le misure severe vennero prese quando i buoi erano scappati dal recinto e il morbo era ormai penetrato in città.  


Nessuno sapeva come si combattesse il contagio, ma, ciò nonostante,  molti si cimentarono in diagnosi approssimative, proponendo terapie di dubbia efficacia. Chi si ammalava veniva isolato nei lazzaretti in quarantena, in attesa che, per fortuna o aiuto divino, guarisse da sé oppure tirasse le cuoia, perché, in realtà non c’era alcuna cura.


Il panico si diffuse più veloce del contagio e vennero saccheggiati i negozi di alimentari. La gente cominciò a guardarsi con sospetto e vennero meno gli elementari principi di civile convivenza.


Presto iniziò la caccia all’untore e ci fu chi colse l'occasione per cavalcare politicamente gli umori popolari e sfruttarli a proprio vantaggio: ovviamente il processo ai presunti untori si rivolse contro chi viveva ai margini della società.


I profittatori e le iene sociali trovarono terreno fertile per esercitare le loro malefiche virtù e depredare i malati. Tra le classi dirigenti, ci furono intellettuali che ostinatamente negarono il contagio, anche quando finirono per soccombere al morbo; chi, invece, pensò di autoimmunizzarsi, vivendo in modo sregolato tra feste e bisbocce.


Ma non tutti cedettero al panico e al degrado morale e conservarono la propria umana dignità, impiegando generosamente tutte le proprie energie per alleviare le sofferenze dei malati, sino anche al sacrificio della vita.


No, non si tratta della cronaca ossessiva di questi giorni di coronavirus, ma di un riassunto delle celebri pagine dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, dedicate alla peste a Milano del 1630. Ai lettori riconoscere i riferimenti e le allusioni al romanzo.


Eppure, a ben vedere, forse, Manzoni ci narra, meglio di tanti cronisti odierni, l’ossessione da coronavirus di questi nostri giorni.

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