Pubblicato il 03/07/2019
ATTUALITÀ
ph. Sea Watch

Il caso Sea Watch: cosa dicono le carte del Gip



Leggere un fatto nel contesto per comprenderlo: è il principio ermeneutico che ha spinto il Gip di Agrigento a rigettare la richiesta di convalida dell'arresto. Nessun atto di guerra e il presunto "speronamento" va molto "ridimensionato": la comandante della Sea Watch ha agito in stato di necessità e non poteva portare i naufraghi in Libia né in Tunisia in quanto "porti non sicuri".

di Giacomo Belvedere

Avete presente la novella di Pirandello Il treno ha fischiato? Il protagonista, Belluca, impiegato modello, un giorno sembra uscito di testa: non svolge più puntigliosamente i suoi doveri e aggredisce persino – lui un’animella – il capufficio. Tutti decretano la sua pazzia. Ma poi si scopre che la sua reazione, apparentemente senza giustificazioni razionali, è la naturalissima conseguenza della sua vita impossibile.

Pirandello mette in guardia dai giudizi troppo affrettati, che si basano sul fatto in sé, astraendolo dal contesto in cui è avvenuto.

Pirandello era di Agrigento. Per singolare coincidenza, il Gip di Agrigento, Alessandrea Vella, sembra essersi conformata, nel giudicare il caso della Sea Watch all’avvertimento del grande scrittore agrigentino. 


Il Gip, infatti, scrive, nell’ordinanza con cui ha rigettato la richiesta di convalida di arresto della comandante della Sea Watch, che il fatto contestato all’indagata carola Rackete non può essere atomisticamente esaminato, ma deve essere vagliato unitamente ed alla luce di ciò che lo precede, ossia il soccorso in mare e gli obblighi che ne scaturiscono”. E cita la Carta Costituzionale, le convenzioni internazionali, il diritto consuetudinario, ed i Principi Generali del Diritto riconosciuti dalle Nazioni Unite, che “pongono obblighi specifici sia in capo ai comandanti delle navi che in capo agli Stati contraenti, in ordine alle operazioni di soccorso in mare”.


L'ACCUSA - È questo il principio ermeneutico, secondo cui il Gip ha rigettato la richiesta di convalida dell’arresto, avanzata dal pm Luigi Patronaggio. La richiesta guarda ai fatti “atomisticamente”, avulsi dal contesto. Dopo aver reiteratamente ricevuto – scrive il pm - via radio della Guardia di Finanza l'ordine di fermare il moto - non essendo autorizzata all'ingresso nel porto di Lampedusa - ed essendo poi stata avvicinata dalla vedetta V.808 della Guardia di Finanza, con attivazione dei segnali previsti dal Codice Internazionale per farla desistere dall' ingresso in porto, intraprendeva manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti dalla vedetta, azionando i motori di bordo ed indirizzando la rotta verso il porto; quindi, dopo aver fatto accesso al porto, si dirigeva verso la banchina del molo commerciale, già occupata da vedetta V. 808 già ormeggiata con lampeggianti e luci di navigazione accese, fino a urtare con la propria fiancata di sinistra il fianco sinistro della motovedetta, che veniva compressa tra la motonave Sea Watch 3 e la banchina”.


Per tali fatti il pm configura la fattispecie di due reati: resistenza a nave da guerra, di cui all’art. 1100 del Codice di navigazione, “perché quale Comandante della motonave Sea Watch 3 […] compiva atti di resistenza e di violenza nei confronti di nave da guerra Vedetta V.808” della Guardia di Finanza”, reato che prevede una pena che va dai  tre ai 10 anni di reclusione; e resistenza a pubblico ufficiale, di cui all’art. 337 c.p., “perché quale Comandante della motonave Sea Watch 3 […] usava violenza per opporsi ai pubblici ufficiali presenti a bordo della Vedetta V.808 della Guardia di Finanza mentre compivano atti di polizia marittima”, reato che prevede una pena che va da 6 mesi a 5 anni di reclusione.  


"NESSUNA NAVE DI GUERRA" - Il GIP ha, innanzitutto, escluso in via assolutamente preliminare «la ricorrenza, nella specie, dell'ipotesi delittuosa di cui all'articolo 1100 del Codice della Navigazione». «Per condivisibile opzione ermeneutica del Giudice delle Leggi (v. Corte costituzionale, sentenza numero 35/2000) – scrive il Gip - le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo "quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare”. Nella fattispecie, al contrario, la nave della Guardia di Finanza indicata nell'atto di incolpazione operava in acque territoriali, all'interno del Porto di Lampedusa”».


FATTO RIDIMENSIONATO - Residua, dunque, la sola ipotesi di reato di cui all’articolo 337 c.p. D’Alessandro, intanto, minimizza, rispetto alle dichiarazioni di fuoco, di chi - ministro Salvini in testa – ha tuonato contro la comandante della Sea Watch, definendola una “criminale”, colpevole addirittura di tentato omicidio. Il Gip «sulla scorta delle dichiarazioni rese dall'indagata (a tenore delle quali ella avrebbe operato un cauto avvicinamento alla banchina portuale) e da quanto emerge dalla visione del video in atti», osserva che «il fatto deve essere di molto ridimensionato, nella la sua portata offensiva, rispetto alla prospettazione accusatoria fondata sulle rilevazioni della p.g.». Tuttavia, resta in piedi un’ipotesi di reato, benché molto ridimensionata: «l'avere posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta della Guardia di Finanza, senz'altro costituente il portato di una scelta volontaria seppure calcolata, permette di ritenere sussistente il coefficiente soggettivo necessario ai fini della configurabilità concettuale del reato in discorso».


STATO DI NECESSITÀ - Ed è a questo punto che entra in gioco il principio ermeneutico “pirandelliano”: guardare le cose nell’insieme. «Detto reato – scrive il Gip -, ad ogni modo, deve ritenersi scriminato, ai sensi dell'articolo 51 c.p. per avere l'indagata agito in adempimento di un dovere». E cita le norme sancite dagli accordi internazionali in vigore in Italia, «le quali assumono in base al principio fondamentale pacta sunt servanda un carattere di sovraordinazione rispetto alla disciplina interna ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, secondo cui la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l'altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali». Quindi ricorda i patti internazionali a cui l’Italia è legata: la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 10 dicembre 1982, che costituisce il testo normativo fondamentale in materia di diritto della navigazione; la Convenzione cosiddetta SOLAS, firmata a Londra nel 1974 e resa esecutiva in Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313 (e successivi emendamenti), che impone al comandante della nave di prestare assistenza alle persone che si trovano in pericolo; la Convenzione SAR (Search and Rescue), convenzione sulla ricerca e soccorso in mare, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 e resa esecutiva in Italia con legge 3 aprile 1909, n. 47.


NON SI APPLICA IL DECRETO SICUREZZA BIS - In questo contesto, «l'attività del capitano della nave Sea Watch 3 di salvataggio in mare di soggetti naufraghi – spiega -, deve, infatti, considerarsi adempimento degli obblighi derivanti dal complesso quadro normativo che si è sopra richiamato».

A proposito del Decreto Sicurezza Bis, D’Alessandro ritiene che esso “non possa incidere” su tale quadro normativo : «ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio».


LIBIA NON PORTO SICURO - «Giova, a questo punto, precisare che il descritto segmento finale della condotta dell'indagata, come detto integrativo del reato di resistenza a pubblico ufficiale, costituisce il prescritto esito dell'adempimento del dovere di soccorso, il quale - si badi bene - non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro». Porto sicuro che per il Gip non poteva essere né la Libia né la Tunisia. Bene ha fatto, dunque, la comandante a rifiutarsi di portare i naufraghi in Libia. Il porto vicino pià sicuro, per il Gip, era Lampedusa (Malta era più lontana).  


ARRESTO ILLEGITTIMO - «La Rackete – conclude il Gip - ha agito conformemente alla previsione di cui all'articolo 51 c.p, che esime da pena colui che abbia commesso il fatto per adempiere a un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità. Quindi, il parametro normativo al quale riferirsi, sia per individuare il contenuto del dovere, sia per verificare la legittimità dell'ordine impartito, deve essere ricercato nell'ordinamento giuridico italiano (v. Cassazione penale, sez. V, 11/03/2014, n. 39788) e quindi anche nelle norme internazionali nell'ordinamento giuridico incorpora». Ne derivano «l'insussistenza del reato di cui all'articolo 1100 Codice della Navigazione e, quanto al reato di cui all'articolo 337 c.p., l'operatività della scriminante di cui all'articolo 51 c.p.» che «giustificano la mancata convalida dell'arresto ed il rigetto della richiesta di applicazione di misura cautelare personale».

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