Per Sturzo l'ipotesi di vita intelligente extraterrestre non è assurda, anche se pone alla teologia interrogativi formidabili, che richiedono di ripensare le tradizionali categorie della fine del mondo e della redenzione in chiave non antropocentrica. Decisiva l'influenza di Blondel, con cui strinse amicizia. Le note teologiche sturziane sulla questione dimostrano la sua straordinaria curiosità e apertura mentale, che lo portano a battere vie nuove, poco praticate dalla teologia tradizionale.
di Giacomo Belvedere
C’è vita extraterreste intelligente nel cosmo? L’interrogativo affascinò a più riprese anche don Luigi Sturzo. Il sacerdote di Caltagirone propendeva per una risposta decisamente affermativa. Ovviamente Sturzo non era interessato tanto ai risvolti scientifici, fisici e biologici, della questione, ma a quelli teologici, soteriologici e antropologici. Se c’è vita intelligente nel cosmo, infatti, va ripensata tutta la dottrina della salvezza in chiave non antropocentrica. Insomma, per Sturzo, è un atto di narcisismo presuntuoso ritenere che l’opera redentrice di Dio si sia rivolta solo ed esclusivamente all’uomo. Sarebbe un ridurre la sua onnipotenza alla minuscola dimensione umana. Ma Sturzo era anche consapevole che, ammettendo vita intelligente extraumana, si ponevano altri formidabili interrogativi: l'incarnazione, morte e risurrezione di Cristo travalicano i confini della terra o hanno avuto altre “repliche” a beneficio di altri esseri sparsi nell'universo mondo? Ma ciò contrasterebbe con la dottrina tradizionale dell'unico sacrificio cruento di Cristo. Insomma, un bel rompicapo teologico, difficile da risolvere, restando ancorati alla teologia tradizionale riduttivamente antropomorfa. L'unico modo per uscire dal vicolo cieco è partire dal valore universale della redenzione acquistata da Cristo col sacrificio della croce, che si irrora in tutto il cosmo che è stato, è e sarà.
Fu negli anni dell’esilio che il sacerdote calatino, pur movendosi sempre entro il tradizionale orizzonte tomista, sperimentò altre vie, aprendosi alla scuola scotista, assorbita attraverso le suggestioni della filosofia di Blondel, per cui la sua soteriologia assume un taglio cristocentrico, incarnazionista e cosmico. Si può cogliere nella teologia sturziana, a più riprese, l’eco del pensiero blondeliano, a cui Sturzo riconosce il merito di aver elaborato sulla scorta di Leibniz e Vico una sorta di “platonismo benefico” che, rispetto alla Neo-Scolastica, si mostrava più attrezzato a rispondere alla sfida della secolarizzazione della società. L'interesse per il filosofo francese, di cui dal 1934 al 1937 apparvero i cinque volumi della trilogia La Pensée (2 volumi), L’Être et les êtres, L’Action (ripresa in due volumi dell’antica Action), crebbe negli anno dell'esilio, benché Sturzo mantenga alcune riserve sulla filosofia blondeliana, accolta più come orientamento che come tesi. Sturzo frequentò la famiglia Blondel, stringendo amicizia anche col figlio e col genero del filosofo, Charles Blondel e Charles Flory, con i quali collaborò alla rivista «Politique»; scrisse recensioni su La Pensée, pubblicate dall’editrice Beauchesne nel 1934, nella «Contemporary Review» (novembre 1934), in «Politique» (settembre 1935) e in «The Hibbert Journal» (aprile 1936); mandò cmyf a Blondel nel 1936 le bozze del suo volume L’Église et l’État, chiedendo il suo parere e le sue correzioni.
È attraverso il neoagostinismo del filosofo francese che la teologia sturziana amplia il suo orizzonte, smarcandosi dal neotomismo e respirando lo stesso fecondo clima culturale in cui stava maturando il rinnovamento della Nouvelle Théologie. Cristo – scrive Sturzo - «è posto al centro della creazione, superiore agli angeli, unica espressione di lode accettevole a Dio e nel nome proprio e per tutto il creato; unico omaggio di gloria degno di Dio. Tutto il cosmo celebra in suo linguaggio, come conoscenza e amore, ma solo attraverso il mediatore, redentore, sacerdote eterno, Gesù Cristo, Dio e uomo, perché Egli solo ne ha il diritto e la pienezza ab aeterno» [La vera vita, 123-124]. L’incarnazione non è dunque motivata dalla redenzione dell’uomo, ma è essenzialmente finalizzata alla glorificazione di Dio: sul Calvario si svela il disegno divino di salvezza «con al centro il Cristo crocifisso per la caduta di Adamo, ma questa realtà storica è piena della luce della funzione che trascende la terra e gli uomini che l’abitano, per diventare universale, nel primato di Cristo su tutte le creature visibili e invisibili, tutte entranti, secondo la loro natura, nel piano primordiale di Dio nel rivelare la sua gloria» [VV, 160].
La teoria di Blondel sul pensiero
cosmico, «pensiero-gioia che arriva a comprendersi, espandersi e
riviversi, come nuovo riflesso del creato a cui si è comunicato»
[ibidem], porta inoltre Sturzo ad abbracciare «la tesi che fa del
cosmo non il servo della terra e dell’uomo che l’abita per un
periodo particolare, ma una sempre più larga e continua
manifestazione del pensiero creatore» [VV, 220]. E dunque, se «il
pensiero cosciente è l’acquisizione e il completamento del
pensiero cosmico», non è assurda l’ipotesi di esseri intelligenti
e coscienti extraterrestri, «poiché l’essere intelligente è
l’organo del creato che solo può in certo modo comprendere e
adorare la gloria di Dio» [VV, 235]. Ma Sturzo riprende da Blondel
anche la filosofia dell'evoluzione cosmica. Per il teologo di
Caltagirone «la vita è e continuerà a essere disseminata in tutto
il cosmo, compresivi gli esseri intellettivi, mano a mano che i
singoli astri arrivano a divenire atti a condizionarla e svilupparla;
allo stesso modo la vita vi cesserebbe quando nei singoli astri
cessassero di agire le forze che la resero possibile» [ibidem]. A
questa ipotesi, che coniuga evoluzionismo e cristianesimo, è
collegata la teoria della persistenza cosmica e il ripensamento
dell'idea della “fine del mondo”. Sturzo propende, infatti, a
credere ad «un cosmo in perpetuo dinamismo, sì che la fine è solo
individuale e parziale, mentre il creato svolge le sue energie in una
continuità temporale che non esige un termine» [VV, 220]. Difatti
«sarebbe un forzare i testi scritturali l’estendere la fine del
nostro mondo a tutti i milioni e milioni dei mondi e legarne la sorte
a quella dell’uomo vivente sulla terra» [VV, 235].
In tutto il cosmo, dunque, vi sarebbe
una specie di circolazione vitale, che si esprime in forme di vita a
noi ignote ma che possiamo ipotizzare per analogia con la nostra, e
che non è destinata ad esaurirsi nel tempo, «sì che non avrebbe
termine come circolazione perché non avrebbe termine il cosmo nella
perpetuità della sua pienezza creaturale; mentre ogni singolo gruppo
vitale avrebbe la sua fine al tempo segnato dallo svolgimento delle
condizioni naturali di ciascun astro» [ibidem]. La fine del mondo,
quindi, non è concepita da Sturzo come una catastrofe
spazio-temporale, come evento storico, processo fisico-cosmico, o
atto negativo della Divinità, ma come il culmine della lotta fra il
bene e il male, con la finale prevalenza e rivelazione del bene. Per
Sturzo è errato riportarla sul piano storico; meglio pensarla come
epifania divina.
Sturzo applica la teoria dei gradi e
cicli di civilizzazione della sua sociologia al cosmo intero: è
«possibile l’esistenza di creature viventi e intelligenti come
l’uomo; e pensiamo che tali creature avranno anch’esse il loro
inizio e la loro fine, il loro cammino storico, e le proprie crisi e
risoluzioni, nelle quali Dio non manca di manifestarsi, secondo la
sua provvidenza e secondo i bisogni di tali creature, perché tutto
concorra alla glorificazione divina» [VV, 220]. Commentando le
“parole pregnanti e misteriose” dell’inno cristologico di Col
1, 15-20, egli ritiene che la riconciliazione meritata da Cristo non
sia solo per gli uomini, ma «per tutte le creature, per gli angeli
del cielo, per gli esseri intelligenti che han vissuto o vivono negli
astri o che vivranno nei secoli» [VV, 160].
Secondo Sturzo,
l’esistenza di forme di vita intelligenti extraumane ed
extraterrestri, «creature itineranti verso Dio, in mezzo al roteare
delle innumeri stelle, nel turbinio di un’immensa e perenne
vitalità cosmica» [VV, 235-36], non pone difficoltà insormontabili
alla teologia della redenzione. Nulla ci «impedisce di pensare che a
tutti gli esseri in tutti gli astri abitabili sia stata o sarà
rivelata l’incarnazione del Verbo e la Trinità, e che tutti siano
chiamati alla vita soprannaturale e alla visione beatifica» e che,
sia pure in via ipotetica, «il nome di Gesù (così o altrimenti
pronunziato che indichi lo stesso Figlio di Dio fatto uomo), sia o
potrà essere conosciuto e lodato in altre miriadi di cieli stellari,
per secoli e secoli» [VV, 236]. Nell’universo, tutte le creature
redente si uniscono in un unico afflato di respiro universale alla
dossologia che si leva dal cosmo a Dio: «invece di pensare i cieli
muti che inneggiano a Dio solo con un moto che non ha intelligenza e
coscienza, seguendo le leggi fisiche da Lui fissate», è più
consono all’infinito amore divino immaginare «che in una vicenda
continua di quelli che nascono e quelli che muoiono, sempre che duri
il cosmo, vi saranno anime itineranti che levano la mente e il cuore
a Dio e ne cantano la bontà, e anelano e sospirano a congiungersi
eternamente a Lui» [ibidem].
La ricapitolazione del cosmo in Dio per
la mediazione redentrice di Cristo ci fa partecipi di un’unica
società umano-divina in cui «Dio è il centro di origine e di
finalità, di natura e di grazia, di via e di termine. Gli esseri
puramente spirituali, quali gli ordini angelici, e tutti gli uomini,
di prima e dopo Cristo, sono chiamati a partecipare a questa società;
anche gli esseri intelligenti disseminati nel cosmo sono, in ipotesi,
appellati alla conoscenza e all’amore di Dio. Fra tutti costoro,
passati presenti e futuri, è costituita una società reale e ideale
allo stesso tempo» [VV, 236-237].
Questa communio sanctorum,
reinterpretata in chiave di solidarietà cosmica, instaura una
società effettiva e produttrice di bene, che travalica l’hic et
nunc delle storie personali; in essa la società naturale coesiste
con la società soprannaturale e la conoscenza e l’amore naturale
sono elevati soprannaturalmente: «In uno stesso amore abbracciamo
tutti, anche gli angeli del cielo, gli uomini che furono o che
saranno, gli altri esseri intelligenti che noi non conosciamo né
abbiamo ragione di conoscere, ma che pensiamo esistenti nei mondi
celesti» [VV, 237].
Nella parusia finale - conclude Sturzo con accenti di commosso lirismo - «le colpe, le
lagrime di pentimento, le tristizie di cuore, tutto sarà trasformato
dall’amore, levato via dalla nostra coscienza, in una “rinnovazione
di gioventù”. Il passato è chiuso e l’avvenire non ci sarà più
né ci affliggerà con la sua ombra. Tutto è presente, è atto
infinito a cui noi partecipiamo, l’atto stesso divino, mentre il
tempo scorrerà ai nostri piedi, nel cosmo che nei suoi innumeri
ritmi si unirà ai canti dei beati di “gloria a Dio negli altissimi
cieli”» [VV, 241].
Per approfondire: cfr. Giacomo Belvedere, Redenzione, in Lessico Sturziano, a cura di A. Parisi e M. Cappellano, Rubettino editore, Soveria Mannelli 2013, pp. 787-797.
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