L'articolo “Cosa resta delle "Giornate sturziane di Caltagirone” sta suscitando un vivace dibattito. Riceviamo e pubblichiamo il contributo che, in proposito, ci ha inviato Samuel Boscarello, “una bella occasione - ci scrive - per far nascere, una volta tanto, un ragionamento politico collettivo di un certo livello a Caltagirone”.
di Samuel Boscarello
Il commento del prof. Giacomo Belvedere
sulle “Giornate sturziane” è una bella occasione per far nascere, una volta
tanto, un ragionamento politico collettivo di un certo livello a Caltagirone. Mi sento in sintonia con le parole che ho
letto. Cosa apparentemente singolare, perché non sono cattolico né tantomeno
credente. Però sono un uomo di fede. Semplicemente questa fede non si
dirige verso Dio, ma verso quel grandioso progetto di concreta emancipazione
umana che da due secoli a questa parte usiamo chiamare “socialismo”. Mi sento
in sintonia perché se fossi nato almeno mezzo secolo fa avrei avuto in tasca la
tessera del Partito comunista italiano, esattamente come molti cattolici
sarebbero (o sono) stati tesserati alla Democrazia cristiana. E credetemi, lo
sport nazionale della sinistra del Duemila è la rievocazione nostalgica
dell’epoca del “grande partito” in cui un italiano su tre votava comunista.
Ma
ha senso nel 2019 auspicare la nascita del “partito dei cattolici” o del “nuovo
Pci”? No, per manifesta mancanza del contesto storico necessario.
Nel Paese di De Gasperi e Scelba un italiano su dieci era iscritto all’Azione
Cattolica. Tuttavia già negli anni Settanta-Ottanta la Dc soffriva i colpi
della secolarizzazione della società, figurarsi oggi. Ma soprattutto ciò che
rese possibile tenere insieme per quarant’anni in un solo partito tutte le
correnti del cattolicesimo, dai salotti della finanza bianca ai circoli Acli,
era proprio la necessità di fare argine al più forte partito comunista del
mondo occidentale. Un partito che, a dispetto dei santini creati negli ultimi
trent’anni, non rinnegò mai del tutto l’Unione Sovietica. Scomparsa quest’ultima,
si è dissolta anche la motivazione profonda del vicendevole “stringiamoci a
coorte” di cattolici e (post-)comunisti.
Insomma, cambiamo musica. Nell’affollatissimo panorama politico di
oggi la nascita di partiti ex-novo
appassiona ben poco, non a torto. Semmai bisogna aggregare le forze che già
esistono. Il problema è: in base a cosa? Io credo che le persone, tutte le
persone, si possano dividere in due gruppi. Da un lato ci sono coloro i quali
considerano la società in cui viviamo il migliore dei mondi possibili e dunque
pensano che la povertà, l’ignoranza e l’isolamento siano accidenti casuali o
demeriti puramente individuali. Dall’altro coloro che aspirano incessantemente
al progresso dell’umanità verso forme sempre più libere, eguali e fraterne di
convivenza sociale.
Da questa prospettiva, il cristianesimo
e il socialismo condividono non solo l’aspirazione ideale a rigenerare la
società, ma persino quelle soluzioni concrete senza le quali questo discorso
rimarrebbe solo un mucchio di belle parole. Mi riferisco all’economia cooperativa e agli enti non-profit del terzo
settore, che considero le pietre angolari su cui costruire la società del
futuro. Luigi Sturzo lo comprese forse anche più limpidamente dei
socialisti del suo tempo: il modo migliore che ha la gente comune per elevare
le sue condizioni è cooperare, perché il poco di ciascuno se condiviso diventa
la ricchezza di tutti. Questo ai tempi di Sturzo valeva per i contadini vessati
dai latifondisti e ai giorni nostri vale per i lavoratori impauriti dallo
spettro del licenziamento, i giovani che emigrano, i disoccupati terrorizzati
dalla concorrenza degli immigrati, gli immigrati stessi costretti ad accettare
lo schiavismo, i piccoli commercianti, artigiani e professionisti falcidiati
dalla concorrenza.
Per raggruppare queste forze non c’è
bisogno di voli pindarici: possiamo cominciare da Caltagirone. Ha poco senso parlare di progresso, fratellanza
e libertà se non trasformiamo questi valori in opere concrete per la nostra
comunità. E anche se all’inizio fossero solo dieci persone in tutta la
città a voler cooperare per il bene reciproco, che si sostengano i loro sforzi
in tutti i modi per far sì che abbiano successo: una volta che i frutti
cominceranno ad arrivare, altri concittadini prenderanno ad emularle sulla
scorta dell’esempio. Però per realizzare tutto ciò serve una visione chiara e
concreta di come vogliamo il territorio tra vent’anni. Ebbene, io immagino una
Caltagirone che entro il 2040 pulluli di spirito d’iniziativa, fiducia
reciproca, capacità di associarsi per risolvere i problemi comuni e raggiungere
traguardi che sarebbero del tutto irraggiungibili per i deboli individui
isolati. Una Caltagirone ricca e moderna nell’economia, nella cultura e
società.
Vi lascio invitandovi a fare un gioco: se Sturzo fosse nato nel 1990, cosa avrebbe
scritto nell’Appello ai Liberi e Forti? Io penso che avrebbe esortato a
diffidare di quei politici che non hanno idee per il futuro, perché significa
che a loro la realtà di oggi sta bene così com’è. Penso che avrebbe chiamato a
raccolta tutti gli uomini e le donne che non si rassegnano a vivere in questo
eterno presente senza prospettiva. Penso che avrebbe esortato i suoi
concittadini a uscire di casa e progettare insieme un avvenire comune per la
comunità, sia che questa si chiami Caltagirone, sia che si chiami Sicilia,
Italia o Europa.
Pensateci anche voi. Però, se giungete a
conclusioni simili alle mie, tenetevi
pronti a uscire di casa. Una città non si cambia a colpi di like su Facebook.
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