Pubblicato il 19/06/2019
CULTURA

Quando Sturzo portò in scena la mafia a Caltagirone



Parlare di mafia e delle sue collusioni con la politica era un tabù in Italia all'inizio del '900. A maggior ragione in Sicilia. Ed era un tabù anche nella Chiesa. Questo ci fa capire la forza dirompente ed esplosiva che ebbe la rappresentazione del dramma in 5 atti di don Luigi Sturzo,La Mafia, rappresentato al teatro “Silvio Pellico” di Caltagirone (oggi ex Passanisi) il 23 febbraio 1900. Un dramma che ha avuto una storia travagliata, con ilgiallodella perdita e successivo ritrovamento del V e ultimo Atto.


di Giacomo Belvedere

Parlare di mafia in Italia, a maggior ragione in Sicilia, era un tabù all'inizio del '900. Un tabù radicato per anni anche all'interno della comuntà ecclesiale. Il cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967, sottovalutò il fenomeno, preoccupato che si potesse infangare il nome della Sicilia e si portasse acqua alla propaganda comunista. E per questo fu anche bacchettato dal Vaticano, in seguito alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, quando Cosa Nostra fece esplodere una Giulietta imbottita di tritolo, uccidendo sette uomini dei Carabinieri e della Polizia attirati sul posto. In città fu la Chiesa valdese ad affiggere un manifesto in cui si deplorava l'accaduto, pur senza fare il nome “mafia”, tanto forte era allora il tabù. A Ruffini arrivò, tramite il Sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Dell’Acqua, una lettera, in cui si chiedeva “se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa”. Ruffini rispose piccato e irritato per il rimbrotto del Vaticano, ironizzando sull'“iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima!” della Chiesa valdese e dichiarandosi sorpreso “che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall'Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali.


“LA MAFIA”: UN DRAMMA DIROMPENTE - Questo per capire quale fosse, nella tranquilla Caltagirone del 1900, la forza dirompente che ebbe la rappresentazione del dramma in 5 atti di don Luigi Sturzo, La Mafia, rappresentato al teatro “Silvio Pellico”il 23 febbraio 1900. Il dramma non si segnala certo per originalità di trama o per costruzione linguistica, ma conserva intatta tutta la sua profetica forza d’urto, se non altro perché, già nel titolo, rompeva un tabù inveterato, anticipando di molti decenni la scomunica del fenomeno mafioso da parte della Chiesa. Non era certo di poco conto denunciare, nel 1900 e in una piccola città siciliana, la corruzione politica e le aperte connivenze tra la mafia e gli apparati dello Stato. Il testo fu rappresentato tre volte a Caltagirone, destando allarme nella classe politica locale, che si vide messa sotto accusa.


IL TEATRO SOCIALE DI STURZO - La passione per la poesia, la musica e il teatro in specie, si era manifestata sin dagli anni del seminario nel giovane Sturzo, che fu l’animatore di numerose iniziative religiose e letterarie, musicali e teatrali, scrivendo anche liriche, civili e sacre, che non fuoriescono dall’ambito delle esercitazioni scolastiche, e curando, assieme ad altri compagni, un giornaletto satirico “La Saetta”. Negli anni a cavallo del secolo, Sturzo, preso dalla febbrile attività per l’organizzazione del movimento democratico cristiano, cercò nuovi strumenti di propaganda accessibili ad un pubblico composto per lo più da contadini analfabeti, sperimentando una forma di teatro popolare e pedagogico che uscisse fuori dagli schemi angusti, devoti e rassicuranti della coeva filodrammatica cattolica. Nel 1899 il Comitato diocesano di AC, animato da Sturzo, fondò a Caltagirone il Teatro “Silvio Pellico”, prendendo in affitto i locali del teatrino del barone Passanisi. Il locale fu sede non solo di rappresentazioni teatrali, ma anche di iniziative propagandistiche e di istruzione per gli iscritti ai circoli cattolici e alle casse rurali, tra cui conferenze di Toniolo, Murri e Torregrossa. Sturzo stesso contribuì ad arricchire il repertorio della filodrammatica cattolica con proprie produzioni teatrali, scrivendo diversi testi satirico-politici: La Mafia, Il Prefetto nel Mezzogiorno, L’Amico del Popolo, Il Duello, Vittoria della libertà di voto, Un episodio all’Università e altri ancora.




Sono lavori che nascono nel clima dei Fasci siciliani, delle loro lotte, della reazione crispina e della nascita del movimento della democrazia cristiana e segnano una decisa rottura con la tradizione del teatrino salesiano. L’amicizia con Murri l’aveva persuaso che gli ideali della democrazia cristiana dovevano trovare espressione in una letteratura sociale cristiana, che infiammasse gli animi al fine del riscatto morale del popolo. Il teatro sturziano non sfugge ad un certo schematismo manicheo. E tuttavia, scorrendo il sistema dei personaggi dei suoi drammi, non si può non ammirare il coraggio civile del giovane prete di Caltagirone, lontano mille miglia dal teatrino parrocchiale del tempo, intriso da un mediocre melenso buonismo, che giustamente si meritò da Gramsci l'appellativo di “sagrestano”.




NESSUN SANTINO - Nel teatro sturziano le figure tipiche della vita siciliana sono paradigmi sociali immediatamente identificabili dal pubblico analfabeta dei contadini: il prefetto che scioglie i Consigli comunali, il sindaco corrotto, manovrato dai proprietari, l’universitario imbevuto delle idee materialiste socialiste della città, il politico colluso con la mafia, il prete usuraio o pauroso di parlare. Ai “cattivi”, si contrappongono il consigliere comunale onesto che sfida la mafia, il giovane cattolico che da solo combatte i pregiudizi anticlericali della borghesia.

Occorre tuttavia aggiungere che in questa artificiosa contrapposizione, i “buoni” sono un’esigua minoranza e spesso perdenti. Non si offre insomma nessun finale consolatorio e resta intatta tutta la drammatica problematicità della testimonianza cristiana in una società ostile. Il nuovo martire cristiano non è più il santino in abiti talari, ma veste panni laici, ed è sovente il giovane democratico cristiano agitato dal caso di coscienza che lo pone in rotta di collisione con la famiglia e la società.


IL GIALLO DELLO SMARRIMENTO DEL V ATTO - Dopo il contrastato esordio caltagironese all'alba del '900, La mafia ebbe una vita travagliata. Nel 1978, si decise di rappresentare nuovamente il dramma sturziano nell’ambito del Festival di Formello, piccolo centro alle porte di Roma. Il dramma fu poi messo nuovamente in scena nel settembre dello stesso anno a Pescara, nell’ambito della II Festa Nazionale dell’Amicizia organizzata dalla Democrazia cristiana. Tuttavia il V atto si era perduto durante le peripezie subite dall’archivio Sturzo a seguito della precipitosa partenza per l’esilio londinese. Non si conosceva perciò il finale ideato da Sturzo. Diego Fabbri accettò di ridurre il testo sturziano e di scrivere una conclusione per la vicenda. Fabbri immagina che lo smarrimento del V Atto sia dovuto ad una sorta di autocensura dello stesso Sturzo, preoccupato per l’impatto dirompente che la sua opera avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica, e ipotizza per il finale una resipiscenza tardiva del faccendiere Fedeli, losca figura di avvocato invischiato in un pericoloso doppiogioco: egli rivela al cav. Ambrosetti, l’onesto consigliere comunale intenzionato a denunciare il malaffare, il tradimento che si sta consumando ai suoi danni da parte dei dirigenti del suo stesso partito, decisi a farlo uccidere dalla mafia pur di evitare lo scandalo. Il pentimento di Fedeli consente di smascherare i colpevoli e di assicurarli alla giustizia.



SULLO SFONDO L'OMICIDIO NOTARBARTOLO - Ma non era questo finale ottimistico quello immaginato da Sturzo. Nè, tantomeno, nel cuore del prete di Caltagirone albergava la paura, tanto da indurlo ad autocensurarsi, come si è saputo in seguito al successivo ritrovamento del V Atto. Nessun happy end: È proprio Fedeli che, guadagnatasi la fiducia di Ambrosetti, lo uccide col veleno. Né poteva essere diversamente. Scritto in non più di un mese, La mafia è difatti una scoperta e dichiarata allusione alle note vicende del primo processo a Milano contro l’on. Palizzolo, accusato di essere il mandante dell’omicidio del marchese Notarbartolo. Tutti potevano agevolmente riconoscere nella figura del cav. Ambrosetti e in quelle dei suoi avversari - l’on. di San Baronio e il comm. Palica, il politico più colluso col potere mafioso e pertanto osteggiato dall’Ambrosetti nella sua corsa alla carica di sindaco -, un chiaro riferimento alla cronaca di quei giorni. L’avvocato Fedeli è dunque personaggio chiave, ma non nel senso ipotizzato da Fabbri: la corruzione politica è di tale livello che non lascia alcuno spazio di recupero morale. E quando Andrea Serimondi - che è l’unico personaggio “aperto” del dramma - si rifiuta di esser complice di imprese che implichino danni alle persone, subito Palica, lo richiama alle sue colpe passate, alle sue connivenze, inducendolo a desistere da ogni possibile azione.




MAFIA E POLITICA - L’opera è dunque, nonostante il titolo, piuttosto che una denuncia della mafia, un lucido j’accuse di un pervasivo e devastante malcostume politico: la mafia alligna e prende forza perché trova nella politica corrotta una disponibilità ad un’alleanza perversa. Unico, nel dramma, che resisterà alle lusinghe e alle minacce del potere, è Ambrosetti. Egli paga con la vita la sua coerenza e onestà, senza forse riuscire - è questo un interrogativo che non trova una risposta certa - a far giungere in porto la propria denuncia. Ma non è tanto l’efficacia dell’azione politica, nei suoi risultati positivi e pratici, che preme a Sturzo di sottolineare, quanto la sua dimensione testimoniale, di martyria al servizio del bene comune. Sullo sfondo di oscure vicende di politica municipale, si staglia luminosa la figura del giusto solitario; un paradigma che presente nei coevi drammi di quella giovanile stagione democratica cristiana, ritornerà, con ben altro spessore e profondità, nella sua opera teatrale della maturità: Il Ciclo della Creazione.


Per approfondire: cfr. Giacomo Belvedere, Teatro, in Lessico sturziano, a cura di Antonio Parisi e Massimo Cappellano, Rubettino editore,   Soveria Mannelli 2013, pp. 1005-1012.

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