Pubblicato il 17/07/2018
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Caltagirone, commemorato ieri al Monumento ai Caduti il 75° dell’Operazione Husky



Le truppe canadesi della 48° Highlanders motorizzata, con l’appoggio dei carri armati del Reggimento corazzato “Three Rivers”, entrarono a Caltagirone la mattina del 16 luglio 1943 senza incontrare resistenza. E fu probabilmente una fortuna per Caltagirone che la conquista della città avvenise per mano dei canadesi. Altrove, infatti, le truppe  americane non usarono il guanto di velluto, come a Biscari-Santo Pietro, Comiso e Vittoria.


di Giacomo Belvedere


Si è tenuta ieri 16 luglio, alle 20, al Monumento ai Caduti, in via Roma a Caltagirone, la manifestazione commemorativa dell’Operazione Husky (sbarco degli Anglo – Americani e battaglia di Sicilia nel 1943). Si è trattato di un momento significativo che vide, proprio il 16 luglio di 75 anni fa, l’ingresso dei Canadesi in una Caltagirone distrutta dai bombardamenti. L’Amministrazione comunale è stata rappresentata dal vicesindaco Sergio Gruttadauria. Presenti anche la Delegazione Husky canadese, guidata da Steave Gregori, e composta da militari dell’ Esercito canadese, da civili e da un’associazione di veterani e parenti di ex militari caduti in guerra, e il gruppo Agesci Caltagirone 3 della Parrocchia Madonna della Via.

LA CONQUISTA DI CALTAGIRONE – Le truppe canadesi della 48° Highlanders motorizzata, con l’appoggio dei carri armati del Reggimento corazzato “Three Rivers”, entrarono a Caltagirone la mattina del 16 luglio 1943, festa della Madonna del Carmine, senza incontrare resistenza. I canadesi erano giunti alla periferia della città intorno a mezzanotte, dopo aver conquistato, il 15 luglio 1943 Grammichele, pesantemente bombardata dall’aviazione alleata, ed essersi scontrati con la “Hermann Göring”, inseguendola fino a Caltagirone.

Anche Caltagirone era un cumulo di macerie, per i pesanti bombardamenti del 9 e del 10 luglio. Gli alleati avevano avvisato tramite lancio di volantini di evacuare la città, ma i soliti informati avevano sentenziato che Caltagirone non sarebbe stata colpita: il suo illustre concittadino Luigi Sturzo, esule a New York, avrebbe vigilato e protetto la città.

Il 9 luglio, dunque, nessuno si aspettava il disastro imminente. La città aveva voglia di svago e divertimento in quella calda serata estiva. Al Politeama, alle 19, andava in scena uno spettacolo degli universitari e il teatro era pieno di giovani. Al tramonto si scatenò dal cielo l’inferno. Le bombe colpirono le vie di comunicazione, i ponti, i centri nevralgici. Una nuvola di fumo, fiamme e polvere avvolse la città. Il Ponte S. Francesco, che era sopravvissuto al terribile terremoto del 1693 fu preso di mira, ma orgogliosamente restò ancora una volta in piedi.

LA STRAGE DI PIANO STELLA – Fu probabilmente una fortuna per Caltagirone che la conquista della città avvenise per mano dei canadesi. Altrove, infatti, le truppe  americane non usarono il guanto di velluto. Non corrisponde sempre alla realtà l’immagine edulcorata dello sbarco in Sicilia, con le truppe americane accolte entusiasticamente dalla popolazione. Il generale Patton, arringando i suoi uomini, era stato alquanto esplicito: nessun prigioniero. Successivamente Patton si scusò, affermando di aver calcato la mano per dare la carica ai suoi; fatto sta che l’esortazione venne presa alla lettera. Dopo la presa dell’aeroporto militare di Biscari (oggi Acate) – Santo Pietro, a Piano Stella, il 14 luglio i superstiti, che si erano arresi, sventolando fazzoletti bianchi, venneno divisi in due colonne, al comando del capitano Compton e del sergente West. Furono spogliati degli abiti, e successivamente passati alle armi senza pietà. Morirono sotto i colpi dei fucili e delle mitragliatrici statunitensi 12 civili e 76 militari italiani e meno di una decina di militari tedeschi. Solo tre italiani si salvarono fortunosamente. Uno, l’aviere palermitano Giuseppe Giannola, sopravvisse tre volte alla fucilazione, fingendosi morto. Compton e West furono sottoposti a un’inchiesta, senza tuttavia subire conseguenze di rilievo. Non andò meglio a Comiso (60 soldati tedeschi e 50 soldati italiani) e Vittoria (12 tra prigionieri e civili), dove si verificarono analoghe stragi, in palese violazione della convenzione di Ginevra, ad opera dei militari Usa.

Tra i militari tedeschi morti a Piano Stella, quasi sicuramente in combattimento e non durante il massacro successivo, c’era anche il famoso atleta Luz Long, campione di salto in lungo e triplo e vincitore di una medaglia d’argento alle Olimpiadi di Berlino del 1936, che negli intenti di Hitler avrebbero dovuto celebrare la razza ariana. Teorema della superiorità della razza clamorosamente smentito dal campione di colore statunitense Jesse Owens, che vinse quattro medaglie d’oro.  Owens, distratto dal contemporaneo impegno nelle batterie dei  200 metri piani, aveva collezionato due nulli nel salto in lungo.  Fu Long che sportivamente gli suggerì di indietreggiare di poco la rincorsa. E dopo la vittoria della medaglia d’oro da parte di Owens, andò a congratularsi con l’avversario. Un gesto di grande umanità e lealtà, tanto più straordinario nel clima di quegli anni, da parte di uno che era investito del sacro compito di essere l’alfiere della razza ariana. Tra i due grandi atleti si strinse un legame di amicizia e rimasero in contatto anche dopo. La guerra stroncò a 30 anni, nel bosco di Santo Pietro, la vita di Luz Long, un sognatore a cui stava stretta la camicia nera nazista e credeva, malgrado tutto, agli ideali olimpici di De Coubertin, scrivendo una pagina luminosa di storia nella cronaca buia di quegli anni. 

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