Pubblicato il 16/09/2016
CULTURA

150 anni fa la rivolta del sette e mezzo. Il dovere di ricordare



di Giacomo Belvedere 

Un’amnesia durata 150 anni, un debito con la loro storia che i siciliani – e non solo loro – dovrebbero chiudere e risarcire se davvero vogliono guardare avanti. Ma occorre riprendere i sentieri interrotti della memoria per ricucire i legami con quel passato, quando Palermo fu scossa dalla rivolta del sette e mezzo nel 1866.

La storia la fanno i vincitori. La storia dei vinti è condannata spesso all’oblio o a sopravvivere nella memoria sommersa della tradizione orale popolare. Silenziata, rimossa, censurata. Quel che avvenne a Palermo la notte tra il 15 e 16 settembre del 1866 non sta scritto sui libri della historiaufficiale, quella che ci ha tramandato l’impresa dei Mille come un’epopea gentile e Garibaldi come un eroe del popolo. Tant’è che tutti conoscono le cinque giornate di Milano; ma pochi, pochissimi, le sette giornate e mezza di Palermo.

La nostra testata, al suo nascere, ha inteso riannodare i fili con quell’antica storia dimenticata, che è giusto che i padri tramandino ai loro figli, perché si riapproprino del loro passato.

La rivolta scoppiò la notte tra il 15 e il 16 settembre 1866. In quell’anno, per sette giorni e mezzo, dal 16 al 22 settembre, tutto il popolo di Palermo insorse contro uno Stato unitario che aveva promesso la libertà ma aveva rivelato il suo volto vessatorio e poliziesco. Gli insorti tennero in scacco le autorità regie del nuovo Stato unitario, costringendole ad asserragliarsi a Palazzo Reale. A Palermo si unirono presto Monreale, Borgetto, Torretta, Misilmeri, Corleone, Piana dei Greci, Mezzojuso e varie città nelle province di Trapani e Catania.

Tra i ribelli, ex garibaldini delusi e partigiani borbonici, reduci dell’esercito meridionale e repubblicani: i nemici di una volta, si ritrovarono insieme oltre gli steccati ideologici, in nome della comune civiltà. Le croci si mescolavano alle bandiere rosse al grido di “W Santa Rosalia”, “W la Repubblica”, “W Francesco II”.

LA REPRESSIONE – Si stima che i ribelli armati fossero circa 35.000. Tutta la Provincia fu in rivolta e le truppe governative, ormai sopraffatte, si trincerarono nelle guarnigioni.

Il governo italiano decise di mostrare i muscoli: proclamò lo stato d’assedio e fece intervenire l’esercito, mentre le navi della Regia Marina e quelle inglesi bombardarono per 4 giorni la città. Palermo fu messa a ferro e fuoco da 40.000 soldati. Molti dei rivoltosi furono arsi vivi e oltre mille civili passati per le armi. Le perdite tra le fila dell’esercito regio furono oltre 200, tra cui 42 Carabinieri. Le cronache dell’epoca descrivono i rivoltosi come una masnada di feroci briganti. Il “Giornale di Sicilia” del 24 settembre 1866 scriveva: “A Misilmeri si commisero atrocità senza esempio e senza riscontro negli annali della più efferata barbarie”. Silenzio, ovviamente, sulla repressione.

Al comando della spedizione era il generale Raffaele Cadorna, segnalatosi poi in altre lodevoli e gloriose imprese contro i contadini in rivolta per l’odiosa tassa sul macinato e alla Breccia di Porta Pia, dove sbaragliò le poche truppe pontificie, che avevano l’ordine di limitarsi ad un puro atto di resistenza simbolico. Per i suoi altissimi meriti il generale fu nominato deputato e senatore. Il figlio, Luigi, è rimasto negli annali di storia patria. Capo di Stato maggiore del Regio Esercito nel corso della prima guerra mondiale, si segnalò per l’alterigia sprezzante con cui trattava i suoi uomini, considerati carne da macello, e per l’ignominiosa disfatta di Caporetto.

UOMINI O CAPORALI? – Una famiglia benemerita, capostipite di un’odiosa razza di miles gloriosus che ha ammorbato e ammorba ancora l’Italia: uomini che suppliscono con la supponenza e arroganza alla totale incapacità e incompetenza; che hanno compiti di governo non per i loro meriti ma per appartenenza di famiglia, di partito, di casta; che si fanno forti con i deboli e deboli con i forti; che vincono a Palermo contro la folla inerme ma fuggono vergognosamente a Caporetto contro un esercito ben armato e addestrato. È questa nefasta specie umana la mala pianta che ammorba il nostro paese. Quelli che il grande Totò definiva non uomini ma caporali.

UN VESPRO MANCATO – La rivolta del Sette e mezzo fu un vespro mancato, per disorganizzazione, confusione ideologica, approssimazione, certo. Ma anche per il tradimento di quei siciliani che con il nuovo Stato sabaudo fecero affari, infischiandosene delle sofferenze del loro popolo. I beni dell’asse ecclesiastico espropriati e venduti all’asta facevano gola a tanti. E pazienza se i proventi di quelle vendite furono drenati altrove per pagare i debiti di guerra e foraggiare l’ammodernamento e l’industrializzazione del Nord. Mors tua, vita me: il mio interesse sopra quello del mio popolo: vizio diffuso – e purtroppo non estirpato – tra la classe politica siciliana in questo secolo e mezzo di storia unitaria.

Quelle sette giornate e mezza  furono un Vespro mancato che sarebbe tuttavia sciocco ignorare. Quel grido di dolore attende ancora oggi una risposta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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