Pubblicato il 16/03/2018
ATTUALITÀ

6 marzo 1978: 40 anni fa il sequestro Moro e la notte della Repubblica




A quarant’anni di distanza, restano ancora tante ferite aperte e interrogativi senza risposta. E non solo perché non si è fatta piena luce sulla verità giudiziaria, che ha larghe zone d’ombra; ma anche perché dobbiamo ancora fare i conti con la verità politica: l’impatto devastante che quell’eccidio ebbe sulla democrazia italiana. Che forse avrebbe potuto prendere un'altra via.

di Giacomo Belvedere


Era un giovedì che preannunciava la primavera, quel 16 marzo del 1978, quando alle ore 9,00 circa in via Mario Fani, un commando di brigatisti rossi bloccò l'auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta, uccidendo i cinque uomini della scorta, (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino), e sequestrando Moro. La sua prigionia durerà 55 giorni, sino al 9 maggio, quando il corpo dello statista democristiano fu trovato dentro  bagagliaio di una Renault 4 rossa. Oggi, a quarant’anni di distanza, restano tante ferite aperte, tanti interrogativi senza risposta. E non solo perché non si è fatta piena luce sulla verità giudiziaria, che ha larghe zone d’ombra; ma anche perché dobbiamo ancora fare i conti con la verità politica: l’impatto devastante che quell’eccidio ebbe sulla democrazia italiana. Che forse avrebbe potuto prendere un'altra via. 

UN AGGUATO ALLA DEMOCRAZIA - Quel giorno era previsto alla camera dei Deputati il voto di fiducia al Governo Andreotti. I terroristi amano i simboli: il giorno del sequestro e del barbaro eccidio della scorta sembra non essere stato scelto a caso: il presidente della DC si stava recando in Parlamento, dove si sarebbe dovuto varare il nuovo Governo, il primo con appoggio “esterno” del PCI, a seguito del compromesso storico di cui artefici erano stati Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Anche la via in cui fu rapito il Presidente della DC e trucidata la sua scorta ha una risonanza fortemente evocativa: via Mario Fani, intitolata a uno dei fondatori dell’Azione Cattolica da cui Moro proveniva. Sicuramente non fu scelto a caso il luogo dove il 9 maggio 1978, gli assassini fecero ritrovare il corpo di Aldo Moro: via Caietani, vicina sia a piazza del Gesù (dov’era la sede nazionale della DC), sia a via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del PCI).

Come a voler mettere una pietra tombale sul compromesso storico, mettendo a tacere una delle voci più limpide del cattolicesimo democratico italiano: quel cattolicesimo rinnovato dal Concilio, di cui Moro era una delle figure più eminenti. Il “compromesso storico” fu il lungimirante accordo Moro e Berlinguer avevano stretto tra i due grandi partiti di massa, per sbloccare la democrazia italiana e farla uscire definitivamente dalla guerra fredda. Eppure ci fu chi vi vide un inciucio, come oggi si ama dire: il «Manifesto» titolò: “Oggi si è data fiducia a un governo che è la continuità di un passato di omertà e silenzio”. Sulla stessa testata si interpretava l’eccidio di via Fani come “l'ultimo atto di un decennio di stragi coperte dallo Stato”, aggiungendo: “gli operai vogliono sapere dove sono le radici di questa degenerazione”. A testimonianza di quanto fosse imbarazzante ammettere che quel terrorismo avesse ben altre radici che lo stragismo nero o i servizi deviati, che da Piazza Fontana in poi avevano funestato la storia d’Italia.  E ci fu chi operò un sottile quanto ambiguo distinguo: “Né con lo Stato né con le Br”. Come se si potesse tenere una linea di innocente neutralità in quella guerra. Ci volle tempo perché si arrivasse a capire dove erano “le radici di questa degenerazione” e che i “compagni che sbagliavano” non erano dei rivoluzionari che usavano metodi errati ma degli assassini nemici della democrazia da isolare e combattere.

LA VITTORIA DI PIRRO DEL TERRORISMO - Il sequestro e l’assassinio di Moro furono la vittoria di Pirro del terrorismo. Ne denunciarono  la sostanziale incapacità di offrire risposte, l’inconsistenza del nebuloso apparato ideologico, la povertà intellettuale oltre che morale. Il terrorismo ha perso ma ha lasciato macerie lungo il suo passaggio. Ha ucciso gli uomini migliori, risparmiando sempre i collusi e corrotti. Una giustizia proletaria che ha falcidiato, nella sua folle strategia del tanto peggio tanto meglio, le menti più coraggiose e intelligenti che il paese poteva mettere in campo; che ha decimato chi l’Italia voleva cambiarla davvero. E in meglio. In questo, in piena consonanza con le stragi mafiose, che tuttavia hanno sempre avuto una strategia: ribadire il proprio potere sul territorio, insofferente verso ogni forma di Stato concorrente. Quelle delle BR, invece, erano stragi prive di qualunque prospettiva politica, se non un’illusoria e allucinata visione della storia. Puro nichilismo politico. I carcerieri dello statista democristiano si attendevano chissà quali esplosive rivelazioni di segreti inconfessati durante le sedute del “processo” a Moro.  Non ebbero nulla. Nè avrebbero potuto: sarebbe bastato leggere la limpida storia personale di Moro per capirlo. Ma per loro Moro era solo un nemico del popolo. 

MORO E ANDREOTTI: DUE ANIME DEL CATTOLICESIMO - Moro nella DC non aveva la maggioranza né mai la ebbe, come del resto Andreotti: i due esprimevano due “anime” del cattolicesimo democristiano, per molti aspetti antitetiche: Moro, che di papa Montini era amico sin dai tempi della Fuci (e Paolo VI tributò all’amico uno dei suoi interventi più accorati e memorabili), era l’anima riformista, che il Concilio lo aveva preso sul serio e sapeva guardare avanti, pensare in grande e sognare un futuro diverso, anticipando prospettive e scenari futuri; Andreotti, invece, incarnava l’anima curiale, pragmatica sino al cinismo, lucidissimo ma incapace di voli dell’immaginazione e scettico sui sogni di cambiamento. Il primo uno statista, il secondo un abilissimo uomo di potere. In mezzo ai due stava la palude della corrente dorotea, maggioritaria nella DC, più altre piccole correnti minoritarie, che Moro era riuscito a coinvolgere nel suo progetto.  

Moro, raffinato intellettuale, dal linguaggio a volte criptico, che oggi sarebbe mediaticamente inadeguato, aveva tuttavia un enorme carisma, con cui riusciva a procurarsi il consenso anche negli ambienti a lui più ostili nella DC. La sua idea di rinnovamento della politica italiana fu perseguita ben prima del compromesso storico del 1978: famosa l’espressione a lui attribuita delle “convergenze parallele”. Un ossimoro e un paradosso, con cui lo statista intendeva sin dal 1959 il processo di apertura della democrazia italiana al contributo delle forze di sinistra, il PSI, prima, il PCI dopo.

LA FINE DEL COMPROMESSO STORICO - Moro era consapevole che se non si fosse sbloccata la politica italiana, che condannava per una sorta di conventio ad excludendum il maggior partito della Sinistra fuori dal Governo del Paese, si sarebbe prodotta il deperimento e la necrosi della democrazia. Moro non era affatto convinto che il potere logorasse chi non l’aveva, come affermava il celeberrimo motto di Andreotti. Il potere, per il Presidente della DC – la storia  di questi anni ce lo ha purtroppo  insegnato assai bene – logorava chi ce l’aveva: se non si ha la possibilità dell’alternanza e il potere si ingessa nelle stese mani di sempre, si apre la porta alla corruzione. Su questo disegno di riforma politica del Paese trovò un alleato in Enrico Berlinguer, impegnato a costo di una serie di “strappi” da Mosca, a trovare una via italiana al comunismo. L’idea del “compromesso storico” lanciata dal segretario del PCI si incontrava con quella delle convergenze parallele morotea.  Ma questo compromesso, che di compromissorio non aveva nulla e anzi era motivato da un ampio respiro ideale, certamente rompeva gli equilibri politici mondiali imperniati sullo scontro Washington – Mosca. Ma era l’unico modo perché l’Italia trovasse una sua via libera e democratica.

Il 9 maggio 1978 non fu ucciso solo il grande statista democristiano: fu ucciso un sogno di democrazia. Il compromesso storico, venuto a mancare uno dei suoi principali interlocutori, perse di slancio ideale: Andreotti non era certo la persona più adatta a sostituire Moro, lui che del compromesso aveva piuttosto un’idea da sottogoverno. La storia successiva poi ci ha detto come è finita: arenatosi quel disegno, i tentativi di riformare la Prima Repubblica sono tutti miseramente naufragati.

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