Pubblicato il 22/06/2013
INCHIESTA

Dossier “Carissimo Cara” – 2. Gli uomini invisibili nella terra di nessuno




 di Giacomo Belvedere


DOSSIER “CARISSIMO CARA” – 2. GLI UOMINI INVISIBILI NELLA TERRA DI NESSUNO [qui la prima parte] – «Quanto alle dimensioni del Cara che non consentirebbero una buona gestione delle attività degli ospiti o il loro inserimento nel territorio, possiamo solo dire che l’attività di un anno e mezzo dimostra il contrario e che la stragrande maggioranza degli ospiti si è sempre detta molto soddisfatta e contenta della gestione del Centro e dei rapporti che si sono instaurati con il personale e il direttore. Anzi si può aggiungere che avere a che fare con una grande comunità che è un esperimento di convivenza di tantissime etnie, confessioni religiose, nazionalità, ha permesso di coltivare forme di partecipazione diretta in cui sono stati coinvolti moltissimi ospiti, come in un grande paese che si autoregolamenta e trova da sé le soluzioni per i molti problemi che si pongono in ogni momento della convivenza civile». Questo scrive nel blog ufficiale e nella pagina Fb del Cara di Mineo  il responsabile dell’Ufficio Pubbliche relazioni del Centro, Dario Lizzio, ribaltando le critiche al sovradimensionamento in un giudizio di valore aggiunto. Aggiungendo poi una sua “considerazione personale”: «la protesta e il disagio hanno radici profonde, perché non si possono fare attendere i richiedenti asilo 18 mesi ed oltre, ma in questo la gestione del Centro non ha modo di intervenire. Il Cara di Mineo è organizzato in maniera da poter accogliere anche 3000 persone garantendone la dignità e il benessere, e può vantarsi di fare molte attività tese all’inserimento sociale e lavorativo». Gli risponde l’associazione antirazzista “Bordeline-Sicilia” sul suo blog  Siciliamigranti: «l’associazione ritiene comunque il Cara di Mineo un centro con caratteristiche tali da non garantire in alcun modo l’accoglienza e l’integrazione nel tessuto sociale dei richiedenti asilo, come potrebbero essere invece garantite da modelli di accoglienza di minori dimensioni e diffusi sul territorio». Così è se vi pare, dunque? Forse. Ma una domanda va prima fatta: fermo restando che la lentezza burocratica delle pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato non è da attribuire a responsabilità soggettive del Cara (ché altri come si vedrà sono i soggetti), vi è una connessione oggettiva fra sovradimensionamento della struttura e la lungaggine delle pratiche? O meglio: dimensioni medio-piccole di strutture spalmate su tutto il territorio nazionale agevolerebbero lo sveltimento? Lasciamo al lettore e alla sua intelligenza la risposta. Un dato è certo: il Cara di Mineo oltre che essere sovradimensionato rispetto agli standard europei, è anche sovraffollato rispetto alla sua capienza: il centro accoglie circa 3.000 migranti (c’è chi dice 3.300), ma dovrebbe ospitarne non più di 2.000. La cartolina del Cara di Mineo come un’sola felice ha inoltre più di un’ombra. Sono drammi silenziosi, sussurrati piuttosto che gridati. Storie invisibili. L’anno scorso il quotidiano cattolico «Avvenire» rivelò che alcuni casi di aborto verificatisi nella struttura avrebbero potuto «svelare, come sostenuto da fonti sanitarie e da operatori del volontariato, un collegamento proprio tra prostituzione e interruzioni di gravidanza». E la procura di Caltagirone ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di sfruttamento della prostituzione all’interno del centro per richiedenti asilo. Vi sono state anche morti sospette ed episodi di violenza allarmanti. Per esempio Anthony Yeboah, 31 anni, ghanese, deceduto l’11 marzo 2012 all’ospedale di Caltagirone per un ictus. L’uomo si era già recato all’ospedale il 9 marzo, ossia il giorno prima che la condizione si aggravasse ma era stato dimesso. L’avvocato Goffredo D’Antona dell’ Osservatorio dei diritti Catania denunciò allora l’assoluta incertezza delle informazioni circa lo stato di salute dell’uomo prima che si recasse in ospedale in condizione d’ur­genza. Non si sa  «se si fosse sen­tito male anche nei giorni precedenti la morte e se il malessere sia stato corretta­mente diagnosticato già all’interno della struttu­ra, soprattutto nelle ore precedenti il ri­covero. La Croce rossa aveva promesso di fare chiarezza subito dopo l’autopsia, invece non ha più comunicato nulla». Si parlò anche di dieci casi di suicidio, notizia trapelata per caso, grazie alle associazioni umanitarie e a quelle che operano sul territorio. Casi derubricati dal responsabile della struttura Maccarrone, intervistato da «I Siciliani giovani» a episodi «di persone provate, che vengono da guer­re e condizioni estreme, che hanno fatto viaggi orribili prima di venire da noi». C’è persino chi ha speculato sul disagio degli ospiti. Nel marzo 2012 un interprete tunisino è stato arrestato dalla squadra mobile di Catania con l’accusa di aver truffato un immigrato a cui aveva promesso il “buon esito” della domanda per lo status di rifugiato. Il tunisino era addirittura il coordinatore degli interpreti di una cooperativa convenzionata con il Ministero dell’Interno. Il fatto è che fintanto che ai migranti non di garantisce uno status giuridico certo, le loro vite sono condannate ad essere sospese in una condizione pirandelliana di assenza di identità.


MONS. PERI: «IL CARA SIA PER L’UOMO E NON L’UOMO PER IL CARA» – SuPERI CARA 1 questi episodi è intervenuto più volte mons. Calogero Peri, vescovo di Caltagirone. Il 15 aprile 2012, in occasione della terza peregrinazione della Madonna del Ponte, invitò a tutelare la vita e a far chiarezza sugli episodi poco chiari. Mons. Peri individuò 6 punti irrinunciabili: 1) tempi certi per il rilascio dei documenti previsti per legge; 2) la tutela della famiglia e della sua unità; 3) la tutela della dignità della donna e della vita; 4) la tutela dei minori; 5) il rispetto del diritto alla salute; 6) azioni vere e concrete di integrazione, che favorissero la formazione (anche lavorativa), l’alfabetizzazione e l’orientamento alla cittadinanza degli ospiti del Cara.
«Non esistenze sospese in un futuro incerto – concluse con forza il pastore – in un tempo da trascorrere forzosamente, in uno spazio marginale, in uno “spazio-vuoto” per alcuni, in un “non-luogo” per altri. Ma esistenze creative, impegnate, partecipi!». Anche nel corso della Visita pastorale a Mineo il 25 ottobre, mons. Peri volle visitare il Cara. Citando Kant disse: «Dobbiamo stimare l’umanità che è in noi e negli altri sempre come un fine e mai come un mezzo. Il rispetto delle leggi è indispensabile e necessario, ma al centro delle legge ci sia sempre il valore dell’uomo». Il 10 marzo 2013, in un’intervista rilasciata alla nostra testata segnalò come i giudizi sul Cara fossero “contrastanti”: dal Cara presentato come «un centro di  eccellenza per l’accoglienza» al Cara «raggruppamento così anomalo di 2.800 persone tutte in luogo in attesa di non si sa che cosa, con tempi non certi, con lungaggini per alcuni burocratiche per altri istituzionali». Un’immagine “doppia” che il vescovo calatino tentava di chiarire richiamandosi alla sua esperienza personale: «Io – precisava mons. Periho incontrato persone che sono lì da anni, giovani che si chiedono perché non possono studiare, perché non possono iniziare il processo di riscatto anche attraverso la formazione». Pur “senza fare di tutta l’erba un fascio” mons. Peri evidenziava alcune criticità presenti nella struttura: «mi rendo conto che riunendo 2.800 persone di etnie diverse, di paesi diversi, di religioni diverse, in poco tempo non si può arrivare ad un’integrazione, e per questo inizialmente esplodono i contrasti. Sappiamo che anche le “nostre”  lungaggini hanno provocato delle reazioni». E concludeva, augurandosi che ci fosse finalmente «una riflessione un po’ più attenta per delle soluzioni più a misura d’uomo e in tempi giusti che possa dare una svolta a quello che senza dubbio è stato un grande sforzo, per non lasciare del tutto alla deriva questi ospiti che sono venuti cacciati dalla guerra». In conclusione, il pastore della Chiesa di Caltagirone tracciava una via, per nulla facile da seguire, e tuttavia obbligata: «Secondo me lì per davvero si deve avere l’attenzione ad ogni singola persona, ad ogni singolo caso, perché se si vogliono fare rientrare tutti dentro delle normative, almeno per l’esperienza di dialogo che ho, alcune cose non rientrerebbero nella normativa. Ma la realtà ti porta a dire che è l’uomo per il Cara e non il Cara per l’uomo».


IL VIDEO DELL’INTERVISTA (13..03.2013)


 


LA COMMISSIONE TERRITORIALE OVVERO ASPETTANDO GODOT– Per meglioimmigrati2 capire le cause e le motivazioni del malessere degli ospiti del Cara, spesso sfociato in proteste e  disordini, occorre chiarire alcuni concetti: il rifugiato, la protezione internazionale,  sussidiaria e umanitaria. Rientrano nella protezione internazionale sia lo status di rifugiato sia la protezione sussidiaria.  L’Art. 10, comma 3, della Costituzione della Repubblica italiana recita:  «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Oltre all’ art. citato della Costituzione, queste sono le fonti normative, italiane e internazionali,  che disciplinano il diritto d’asilo:

• Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati

• Art. 10, comma 3, Costituzione, sull’asilo

• Direttiva europea Dir. 2004/83/CE (“direttiva qualifiche”) sulla qualifica di rifugiato e di persona bisognosa di protezione internazionale

• Direttiva europea Dir. 2005/85/CE (“direttiva procedure”) sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale

• D.Lgs. 251/2007 di attuazione della “direttiva qualifiche”

• D.Lgs. 25/2008 di attuazione della “direttiva procedure”

• Art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, D.Lgs. 286/1998 (Testo unico immigrazione)

Definizione di Rifugiato: «Chiunque, nel timore fondato di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato» (art. 1, Convenzione Ginevra 1951; Art. 2 Dir. 2004/83/CE; art. 2, comma 1, lett. e), D.Lgs. 251/2007).

Definizione di protezione sussidiaria: rientra in questa categoria il «cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine (o nel paese di domicilio se apolide), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno», (art. 2, lett. g), D. Lgs. 251/2007).

Definizione di protezione umanitaria (permesso di soggiorno per motivi umanitari): lart. 32 D.Lgs. 25/2008 recita: «Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». Secondo l’art. 5, comma 6, D.Lgs. 286/1998 il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non possono essere adottati se ricorrono «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

Per quanto riguarda il permesso di soggiorno le sue condizioni variano a seconda della categoria a cui si appartiene:

– status di rifugiato: Permesso di soggiorno quinquennale rinnovabile, senza ulteriore verifica delle condizioni;

– protezione sussidiaria: Permesso di soggiorno di durata triennale rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione sussidiaria;

– protezione umanitaria: Permesso di soggiorno di durata annuale rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento dei motivi umanitari.

Chi non rientra in nessuna delle tre categorie deve considerarsi un clandestino e può essere soggetto a un procedimento di rimpatrio o di espulsione. Chiunque capisce, dunque, che non è cosa da poco il ruolo delle Commissioni territoriali, organi deputati a stabilire lo status del migrante. Secondo la denuncia di Alfonso Di Stefano, del Forum antirazzista catanese fino a fine luglio 2011 le commissioni erano 2: una a Siracusa e una sub-commissione a Catania, che esaminava 70/80n casi alla settimana, frutto di 4 rivolte dei migranti che avevano bloccato la statale; in seguito ci si è ridotti ad una sola commissione che esamina 30/40n casi la settimana), e la percentuale dei dinieghi è aumentata. In un documentato report del dicembre 2011 – gennaio 2012, Esistenze sospese e resistenze al Cara di Mineo di Glenda Garelli e Martina Tazzioli, viene raccontata l’esperienza delle audizioni presso la Commissione territoriale, così come è vissuta dai migranti. Si parla di commissioni composte da un solo commissario e da un traduttore e di continue interruzioni: «L’esperienza di chi è stato in commissione è di non essere stato ascoltato, di aver dovuto interrompere e riprendere racconti di esperienze traumatiche seguendo il capriccio del commissario (pausa sigaretta, o telefonata sul cellulare): “I spent 5 hours but they translated only 45 minutes. Because most of the time they are distracted, they disturb you. Understand?”». I migranti lamentano inoltre che «vengono fatte le “domande sbagliate” (“wrong questions”)»: si insiste solo sui motivi per cui le persone hanno abbandonato i paesi di origine e si ignora il loro vissuto traumatico in Libia. L’attenzione della Commissione tende a concentrarsi sulle date e a tralasciare il contenuto delle storie e se ti capita di sbagliare data sei fatto fuori. «We are not normal people, – lamenta un migrante – living normal life, we make mistakes, we have families, problems, we are not as lucid as you are. People make mistakes for example with dates: on your report you said that something happened on the 19th and during the commission you say it happened on the 21st: it’s a straight denial» [noi non siamo gente normale con una vita normale, facciamo errori, noi abbiamo famiglie, problemi e non siamo così lucidi come siete voi. Si commettono errori, per esempio con le date: se nella tua relazione tu hai detto che qualcosa è accaduto il 19 e poi in Commissione tu dici che è successa il 21: è un diniego certo]. Inoltre «vengono commessi errori di trascrizione di un nome (in particolare rispetto ai nomi delle persone) che risultano incontestabili: quando i richiedenti asilo suggeriscono la giusta trascrizione del loro nome non vengono ascoltati. Una persona racconta addirittura di dinieghi avvenuti perché il nome dato dalle persone sarebbe diverso da quello registrato al terminale».  L’impressione che hanno i migranti interrogati dalle due ricercatrici, «è che venga tradotta in italiano solo una minima parte di quello che i richiedenti asilo raccontano, che alcuni traduttori siano razzisti e re-interpretino le storie delle persone, e che ci siano problemi di comprensione anche in inglese e francese (mancano mediatori per le lingue native) perché i traduttori non parlerebbero bene queste lingue. La sensazione degli intervistati è che il grande numero di dinieghi sia dovuto al fatto che le loro storie non sono state tradotte adeguatamente e/o ascoltate con attenzione».

[2. continua qui]

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