Pubblicato il 15/02/2014
INCHIESTA

Cara di Mineo, il giorno prima. Una fabbrica di alienazione




 di Giacomo Belvedere


CARA DI MINEO, IL GIORNO PRIMA. UNA FABBRICA DI ALIENAZIONE - Il 6 febbraio scorso una cinquantina di richiedenti asilo,  ospiti del Cara di Mineo, hanno tentato di inscenare una protesta. La motivazione è sempre la stessa: l’elevato numero di dinieghi. Secondo il direttore della struttura di contrada Cucinella, Sebastiano Maccarrone, si è trattato di un momento di dissenso che è durato circa un’ora, «si è svolto in modo tranquillo» ed è stato risolto limitandosi «ad applicare le solite procedure interne». In realtà, come ha denunciato il responsabile della rete antirazzista catanese, Alfonso Di Stefano, sono intervenute le cinquanta nuove unità dell’esercito messe recentemente a presidio del territorio di Mineo, per impedire che i migranti uscissero fuori a protestare. Domani mattina è annunciata la manifestazione regionale davanti al Cara, a cui ha aderito un nutrito cartello di movimenti, gruppi, associazioni e partiti No Cara. La vigilia si preannuncia dunque carica di tensioni, nonostante le rassicurazioni delle autorità che moltiplicano le conferenze stampa – l’ultima in ordine di tempo l’8 febbraio - per ribadire l’impegno dello Stato e delle istituzioni nella risoluzione dei problemi sul tappeto. In realtà, a ben vedere, le soluzioni proposte, oltre che annunciate già in ottobre, non vanno al di là delle tradizionali promesse sul rafforzamento della sicurezza, su misure di snellimento burocratico e di finanziamenti a pioggia, ma non affrontano alla radice i problemi. Probabilmente perché le cause sono strutturali e imporrebbero un ripensamento generale delle  politiche migratorie nazionali ed europee. Ed in tempo di elezioni europee, col vento nazionalista e xenofobo che soffia sul vecchio continente, è ben difficile  che si cambi.

Giovanni Paolo II a Agrigento
Giovanni Paolo II a Agrigento

UNA STRUTTURA DI PECCATO? - «Lo scambio dei mezzi con i fini che porta a dare valore di fine ultimo a ciò che è soltanto un mezzo per concorrervi, oppure a considerare delle persone come puri mezzi in vista di un fine, genera strutture ingiuste che “rendono ardua e praticamente impossibile una condotta cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore”». Questo scrive Giovanni Paolo II nella sua Lettera enciclica Centesimus annus al n. 41, definendo le “strutture di peccato”. Una nozione niente affatto nuova nella dottrina cattolica, tant’è che Wojtyla cita il Messaggio radiofonico del 1 giugno 1941 di Pio XII, pronunciato in un momento drammatico per il mondo.

Papa Pacelli si chiedeva: può la Chiesa «rimanere indifferente spettatrice dei loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?». Il riferimento ai regimi totalitari e al conflitto mondiale in atto è chiarissimo.

È interessante anche che, nello stesso messaggio radiofonico, il Pontefice affronti anche il problema dell’emigrazione: «È inevitabile – scrive - che alcune famiglie, di qua o di là emigrando, si cerchino altrove una nuova patria. Allora, secondo l'insegnamento della Rerum Novarum, va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. Dove questo accadrà, l'emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida l'esperienza, vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla superficie terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio creò e preparò per uso di tutti».

Questo excursus storico-teologico potrà sembrare ad alcuni fuori tema in una questione, quella delle politiche migratorie e del Cara di Mineo, in cui l’aspetto morale è spesso messo in secondo piano o affatto ignorato.  Eppure, i due documenti citati pongono due formidabili questioni morali - e non solo ovviamente  alla cultura cattolica -, a cui i problemi del centro di contrada Cucinella non sono affatto estranei:

1) la questione se si possono ravvisare in esso le caratteristiche di una “struttura di peccato”, ossia - tradotto dal linguaggio teologico in termini laici - di un sistema funzionale a produrre alienazione;

2) la questione della destinazione universale della terra, sconfessata dalle attuali politiche migratorie dell’Unione europea.

Ph. Giuliana Buzzone
Ph. Giuliana Buzzone

IDEALE PER SEGREGARE - Villaggio della solidarietà: così si è ribattezzato il residence degli aranci, dopo che i  militari USA decisero di disdire il contratto di locazione (8,5 milioni di dollari l’anno) in scadenza il 1 aprile 2011, con una lettera del governo americano datata 26 gennaio 2010. La decisione del governo Berlusconi di scegliere la struttura di Mineo per ospitarvi i rifugiati arrivati con gli sbarchi dal Nord Africa in Sicilia fu un’autentica manna dal cielo per la ditta proprietaria, la Pizzarotti di Parma, cui veniva improvvisamene a mancare un cospicuo introito e in serie difficoltà a piazzare il residence sul mercato, anche perché soggetto a uso esclusivo con vincolo di destinazione. Il fu Residence degli Aranci, infatti, fu realizzato con variante che prevedeva “un vincolo di destinazione esclusiva per insediamenti Nato”. Vincolo che fu bypassato con la scusa dell’Emergenza Nord Africa. L’intera struttura infatti non fu presa in locazione, ma fu requisita. La Pizzarotti dovette accontentarsi di sei milioni all’anno, un po’ di meno di quanto prendeva dagli Usa, ma fu un buon affare.

Il residence, eretto nel 1997, è stato pensato dunque come location ideale per le famiglie dei soldati USA di stanza alla vicina base di Sigonella. Si estende per 70.000 metri quadri. Il nucleo abitativo è composto da 404 villette, ma anche di esercizi commerciali, come supermercato e bar, di edifici di sociale interesse quali palestra, asilo, centro ricreativo, sala per funzioni religiose e di una caserma dei vigili del fuoco. Vi sono pure spazi ludici, campi da baseball o football americano. Il residence è autonomo dalle condutture pubbliche: attinge a un pozzo privato, nel territorio di Vizzini, attraverso un acquedotto – anche questo di proprietà della Pizzarotti. Un villaggio all’insegna dell’autosufficienza: non hai bisogno di uscire per trovare quello che ti serve. E proprio per questo ideale per ospitare le famiglie dei militari Usa. Perché nella filosofia delle forze armate Usa di stanza all'estero c'è la non integrazione con la popolazione autoctona. Per evitare spiacevoli incidenti, non si vuole che si integrino o abbiano contatti col territorio. E dunque contrada Cucinella, isolata dal centro più vicino, Mineo, è la location giusta. Talmente ideale che la Pizzarotti avrebbe avuto serissime difficoltà ad affittare i locali dismessi dagli americani. Chi va ad affittare una casa per isolarsi? Ma, proprio per queste ragioni, il villaggio non è il luogo ideale per ospitare i migranti al fine dell'integrazione. Perché innanzitutto la topografia del luogo, al di là delle buone intenzioni, parla il linguaggio della separazione. Si può fare finta ipocritamente che non sia così, ma questo non cambia affatto la realtà delle cose.

Cara di Mineo. La fila alla mensa
Cara di Mineo. La fila alla mensa

UNA FABBRICA DI ALIENAZIONE - È difficile poi parlare di integrazione quando si è costretti a una permanenza forzata in un luogo. E quando vengono fatte convivere assieme etnie, religioni, culture assai diverse e spesso con storie di conflitti e ostilità non sopite. Ci si integra in un tessuto sociale già ben compaginato, non in un puzzle multietnico accozzato senza criterio. Ci si integra, soprattutto, in un luogo o una terra, diversa dalla natìa, in cui si è scelto di “vivere”, non in cui si è costretti a “stare”. Infine ci si integra in un contesto demograficamente bilanciato e omogeneo: il rapporto statistico uomini e donne, adulti e minori, denuncia un’artificiosità di composizione propria dei campi in cui si è subìta una deportazione forzata. Non puoi parlare di comunità in questo caso. C’è una comunità, quando i membri sentono di farne parte tanto da vivere la separazione come una frattura, non quando l’unico ossessivo desiderio è fuggire via, perché la ritengono estranea alle ragioni della propria vita.

Una vita che risulta alienata da tutti i punti di vista. Alienata perché la terra in cui sei non è la terra in cui vuoi essere. Alienata perché non sei libero di muoverti a tuo piacimento. Alienata perché non puoi lavorare. Alienata perché non puoi scegliere cosa mangiare e come cucinarlo. Alienata perché il tuo tempo è scandito da altri. Alienata, infine, perché la tua stessa identità ti è tolta e sei in attesa che ti venga riconosciuta. Un’attesa snervante. Il limbo è a volte peggio dell’inferno, ti toglie la voglia di lottare. Il sovraffollamento prodotto dall’inerzia delle commissioni, dall’assenza di una politica dei flussi migratori  intelligente, non fa che acuire questo senso di precarietà e non senso. Ma il problema è strutturale: chi è nato tondo non può diventare quadrato. Il Cara produce oggettivamente segregazione e questo prescindendo dalle responsabilità dei singoli: anche immaginando che a gestirlo fossero le suore di Madre Teresa, le problematiche potrebbero essere mitigate ma non risolte. Perché strutturalmente si perpetua uno stato di bisogno cronicizzandolo. In tal modo un diritto diventa una concessione. Il Cara così finisce per avere come fine la sua autoconservazione, piuttosto che l’integrazione degli ospiti. Per integrarli davvero dovresti farli uscire fuori dal limbo.


1° COMANDAMENTO: NON PASSI LO STRANIERO - È questa la struttura ingiusta descritta da papa Wojtyla, in cui si ha «lo scambio dei mezzi con i fini che porta a dare valore di fine ultimo a ciò che è soltanto un mezzo per concorrervi, oppure a considerare delle persone come puri mezzi in vista di un fine». Il Cara e le strutture simili, tuttavia, appaiono disfunzionali solo se li si leggono nella logica dell’integrazione e della solidarietà. Ma si rivelano affatto funzionali quando la chiave di lettura diviene la segregazione. Tutti questi centri, infatti, non sono nati per caso ma rispondono a un disegno preciso. Obbediscono in primo luogo alle politiche migratorie comunitarie, recepite poi dalle leggi nazionali. Il Fondo destinato all’amministrazione umanitaria dei rifugiati politici (Decisione 573/2007/CE) ammonta a circa 24,4 milioni, di cui 10,8 disponibili nel triennio 2011-2013. Per quello che concerne il rimpatrio degli immigrati, il Fondo, istituito con decisione 527/2007/CE, è di 68,2 milioni, di cui 50 milioni per il triennio 2011-2013. Emerge evidentissima una sproporzione tra le risorse messe a disposizione dei fondi per i rifugiati e quelle per i rimpatri. Lo scopo è indicato senza nemmeno usare troppi eufemismi: «sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati membri per migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni, sulla base del principio di una possibile gestione integrata del problema (rimpatri forzati e rimpatri volontari assistiti)». Si è scelto dunque di investire nella politica dei respingimenti, salvo poi ipocritamente stracciarsi le vesti di fronte all’ennesima tragedia. L’Europa non è affatto assente. La sproporzione tra gli investimenti per i richiedenti asilo e quelli per i rimpatri dimostra che a priori si è scelta una politica del “muro”, di chiusura egoistica che spinge alla clandestinità e oggettivamente favorisce “i mercanti di carne” contro cui si è scagliato Papa Francesco. Se c’è gente che spende 5 mila e più euro per finire affogata in mare dopo indicibili sofferenze e torture, invece di spenderli per un più comodo e sicuro viaggio in aereo, una ragione ci sarà. Ma sulla politica dei visti il dibattito politico tace.

Ph: Giuliana Buzzone
Ph: Giuliana Buzzone

Inoltre, nelle politiche migratorie europee, sta la radice prima della discriminazione tra due categorie di migranti: i pochi fortunati a cui riconoscere lo status di rifugiato politico, non prima di averci imbastito un vantaggioso business, stipandoli nei centri di accoglienza come il Cara menenino - e i tanti da rispedire nei Paesi d’origine. Decisione salomonica il cui terminale sono le Commissioni territoriali. La situazione del Cara di Mineo è particolarmente grave perché tutte le richieste devono essere esaminate dall'unica Commissione di Siracusa. Entro febbraio, si è detto – prima si era detto altrettanto assertivamente: entro gennaio – dovrebbero entrare a regime le tre nuove commissioni, di cui due a Catania, dedicate esclusivamente al Cara menenino, con una capacità prevista di lavoro di 30 audizioni al giorno. Ma non si dice - o si finge di non sapere - che a monte la decisione di respingere la maggioranza delle richieste è stata già presa. Inoltre le nuove commissioni sono nuove solo nel numero: attingono infatti ai nominativi supplenti delle vecchie commissioni. Sulle quali, numerose sono state le lamentele e le denunce dei migranti. In un documentato report del dicembre 2011 - gennaio 2012, Esistenze sospese e resistenze al Cara di Mineo di Glenda Garelli e Martina Tazzioli, viene raccontata l’esperienza delle audizioni presso la Commissione territoriale, così come è vissuta dai migranti. L’impressione che hanno i migranti interrogati dalle due ricercatrici, «è che venga tradotta in italiano solo una minima parte di quello che i richiedenti asilo raccontano, che alcuni traduttori siano razzisti e re-interpretino le storie delle persone, e che ci siano problemi di comprensione anche in inglese e francese (mancano mediatori per le lingue native) perché i traduttori non parlerebbero bene queste lingue. La sensazione degli intervistati è che il grande numero di dinieghi sia dovuto al fatto che le loro storie non sono state tradotte adeguatamente e/o ascoltate con attenzione». Se dunque il cambio è di quantità ma non di qualità c’è poco da sperare.

Ph. Giusi Scollo
Ph. Giusi Scollo

TUTTO CAMBIA PERCHÈ NULLA CAMBI: IL CONSORZIO CALATINO TERRA D’ACCOGLIENZA - Che non dobbiamo attenderci nessuna svolta sul Cara di Mineo lo testimonia il fatto che, terminata il 10 febbraio la ricerca di mercato volta individuare una struttura nel calatino dove allocare tre mila richiedenti asilo per i prossimi tre anni, prorogabili per altri tre, si è chiusa la trattativa con la Pizzarotti, che ha dovuto abbassare le sue richieste a 4 milioni e 500mila euro all’anno, ma resta saldamente in campo. E c’è da aspettarsi che anche la successiva gara di appalto per l’assegnazione dei servizi non offrirà grandi sorprese. Quella della gestione del Cara è un’altra delle scatole cinesi che rendono opaca la struttura.

Il 31 dicembre 2012 è stata dichiarata conclusa l’emergenza umanitaria Nord Africa. I Cara sono stati chiusi, ma quello di Mineo è rimasto in piedi. Il successivo 8 marzo è stata siglata, in esecuzione dell’OPCN n. 33 del 28.12.2012, che disciplina le modalità di rientro in regime ordinario della gestione emergenziale conclusasi il 31.12.2012, la convenzione tra Prefettura di Catania e il Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza”, costituito dai comuni di Mineo, S. Michele di Ganzaria, Vizzini, S. Cono, Ramacca, Raddusa e Licodia Eubea per la gestione ordinaria del Cara di Mineo. Il Consorzio è diventato dunque il soggetto attuatore, sostituendosi alla provincia di Catania. Per il centro di Mineo si era raggiunto inizialmente un accordo per prolungarne la vita fino a giugno (la copertura finanziaria arrivava fino al 30 giugno), ma successivamente si è avuta un’ulteriore proroga fino al 31 dicembre 2013. Successivamente il Consorzio ha sottoscritto un contratto d’appalto il 2 maggio 2013 con “Sisifo Consorzio Cooperative Sociali a.r.l.”, quale capogruppo dell’ATI costituita dalla stessa e da: “Consorzio Sol.calatino Società Cooperativa Sociale”, “La Cascina Global Service s.r.l.”, “Senis Hospes Società Cooperativa Sociale”,  “Casa della Solidarietà Consorzio di Cooperative Sociali”, Associazione Italiana della Croce Rossa”, “Impresa Pizzarotti & C. s,p.a.” per affidamento dei servizi e delle forniture per la gestione del Centro di Accoglienza richiedenti Asilo di Mineo. Appalto che ora deve essere rinnovato.

Ph: Romina Pace
Ph: Romina Pace

La convenzione prevede la corresponsione al Consorzio di 35 euro pro capite e pro die per la gestione del Centro di Mineo. Il Consorzio trattiene di detta somma 0.40 euro per assicurare le spese di funzionamento dell’Ente e per avviare progetti di integrazione degli ospiti del Centro con le comunità del calatino. Un complesso sistema di scatole cinesi che ha una sua logica: lo Stato salvaguarda così formalmente l’aspetto “pubblico” della gestione dei richiedenti asilo - la prefettura sigla la convenzione col Consorzio-, camuffando il suo sostanziale affidamento ai privati. E ci si mette al riparo anche da un’eventuale soppressione delle province. Un’operazione gattopardesca - tutto cambia perché nulla cambi -: il direttore del Consorzio è Giovanni Ferrera, già dirigente delle Politiche sociali e scolastiche della Provincia di Catania guidata da Giuseppe Castiglione. Quest’ultimo sino a oggi sottosegretario all’Agricoltura del Governo Letta e uomo di fiducia di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, vale a dire il dicastero cui spetta tutta la gestione del problema immigrazione. Caduto il governo Letta, potrà cambiare qualcosa? Non abbiamo la sfera di cristallo, ma troppi e troppo grossi sono gli interessi in gioco.

Sul Consorzio a Mineo si è giocata nei giorni scorsi una partita tutta politica: il gruppo “Mineo Prima di Tutto” ha chiesto la fuoriuscita della città di Capuana dal Consorzio, accusato per tali ragioni dal gruppo “Uniti per Mineo”, che appoggia il sindaco Anna Aloisi, di mettere a repentaglio i posti di lavoro. E  un’assemblea pubblica sul tema, organizzata il 31 gennaio, di fatto non si è potuta tenere, per le proteste inscenate da un gruppo di dipendenti del Cara preoccupati per il loro lavoro. Ne sono seguite una serie di accuse e contro accuse al vetriolo tra le due parti. In realtà, al di là della visibilità e clamore politico delle posizioni in campo, occorre onestamente ammettere che l’eventuale fuoriuscita del comune menenino dal Consorzio, suonerebbe come una sconfitta politica per la Aloisi, messa in minoranza, ma non cambierebbe granché la sostanza delle cose nella gestione del Cara. Ed altrettanto onestamente bisogna chiarire che lo spauracchio di licenziamenti prodotti dalla fuoriuscita dal Consorzio non ha alcuna ragion d’essere, se non appunto come arma di pressione politica.

Cara di Mineo. Interno abitazione.
Cara di Mineo. Interno abitazione.

La vera partita sul Consorzio, ben più difficile, si giocherebbe nel momento in cui cambiassero gli equilibri politici nelle amministrazioni dei comuni membri e venisse meno quella saldatura tra politica e economia sociale, che è una delle strategie portate avanti dal presidente di Sol.calatino Paolo Ragusa così teorizzata, in una lettera aperta postata nel sito del Consorzio il 7 ottobre scorso: «è urgente strutturare in maniera permanente questa grande rete di accoglienza integrata diffusa sul tutto il Paese, affidandosi al protagonismo degli enti locali e dei soggetti del privato sociale, a cominciare dalla cooperazione sociale». Se cambiassero gli equilibri all’interno del Consorzio e non vi fossero più amministrazioni “amiche”, in un’eventuale gara di appalto potrebbero anche venire dei dubbi che portino a verificare se le ditte non siano state coinvolte in inchieste giudiziarie o scandali nella gestione dei migranti. In una diversa gestione – si ricordi che è il Consorzio Calatino Terra di Accoglienza il soggetto attuatore, non il cartello delle cooperative sociali – i comuni consorziati potrebbero decidersi a svolgere un’attività di controllo ed ispettiva, anche per autotutelarsi. Perché, se la bomba umanitaria del Cara di Mineo un giorno dovesse esplodere drammaticamente, il fall-out ricadrà inevitabilmente anche sul soggetto attuatore e su chi lo rappresenta. 

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