Pubblicato il 04/11/2019
CULTURA

Video, ergo sum: in principio era la Parola, poi l'occhio volle la sua parte



La civiltà occidentale, fondata sulla parola, rischia di essere sommersa da un diluvio di immagini, perdendo la sua specificità e annegando, come Narciso, nella dittatura della società ideo-alogica, che può condannarla ad un inesorabile tramonto.

di Giacomo Belvedere


In principio era la Parola, poi l'occhio volle la sua parte. Ricordate lo slogan del ‘68 «l’immaginazione al potere»? Esprimeva il sogno, certo un po’ ingenuo e non privo di contraddizioni, di una società dove ci fosse più spazio per la fantasia, l’inventiva e la creatività. Trascorsi più di 50 anni, l’impressione è che quel sogno si sia rivelato una chimera e un’illusione. Al potere sono andate la banalità, la mediocrità, l’ottusità. Ma, se l’immaginazione non è andata al potere, le immagini invece sì, conquistando una supremazia assoluta in una società in cui vedere (video) ed essere visti (videor) è diventato un imperativo categorico. Video ergo sum, dunque, ma anche videor ergo sum. Ci si preoccupa più della propria immagine che della propria salute. Ed anche a livello politico si è più attenti a tutelare l’immagine del Paese che le sue finanze.


Eppure, prima ancora di essere un chiaro segno di degrado morale e politico, questo sembra essere un inquietante sintomo di declino culturale. La civiltà occidentale sta affogando allegramente in un profluvio di immagini, compiacendosi del suo folle suicidio collettivo. Intendiamoci: la civiltà dell’immagine non è un’invenzione moderna, come spesso si ripete sulla scorta di slogan pseudosociologici divenuti luoghi comuni. La “visione” è da sempre legata ai processi del pensiero. Termini quali “idea”, “ideare” (dalla radice greca “id” dello stesso ceppo indoeuropeo del verbo latino “video”) coi quali esprimiamo i processi mentali, lo stanno a testimoniare. Come a dire: nell’elaborazione culturale l’occhio ha sempre voluto la sua parte.



E tuttavia la civiltà occidentale ha sempre ritenuto che l’idea da sola non bastasse, ma andasse mediata, interpretata, comunicata dal logos, cioè dalla ragione che si fa parola. Altrimenti la realtà si mostra piatta e opaca, vuota apparenza, conforme al significato originario della parola greca “idea”.


Il pensiero greco e quello giudaico-cristiano, che successivamente si è innestato su di esso, concordano su questo punto, fondando un sapere ideo-logico, nel senso nobile del termine. La Maddalena non riesce realmente a “vedere” il Risorto, fino a quando non si sente chiamare dalla sua voce. I discepoli di Emmaus lo ri-conoscono solo dopo averlo ascoltato lungo il cammino. È il logos che ci rende capaci di intelligere, di leggere, cioè, dentro le cose.


Anche quando esse sono inquietanti. Il logos è il filo di Arianna che ci fa orientare nel labirinto dove potremmo rischiare di essere divorati dal Minotauro. La grande tragedia greca tiene fuori dalla scena il conturbante monstrum che è in ciascuno di noi e preferisce raccontarlo. In tal modo, tramite il filtro della parola-logos, l’obscaenum non prende il sopravvento e avviene la catarsi.


Ma oggi, perso quel filtro, l’oscenità dilaga, celebrando il trionfo di una società voyeuristica e spiona. L’occhio oggi è divenuto ingordo: vuole tutto, non si accontenta più della sua parte. Così si smarriscono le stesse radici della nostra cultura. Che è nata da una disabilità visiva (Omero il poeta cieco), e da un divieto di vedere (Mosè si copre il capo per non vedere Dio, altrimenti morirebbe). Questo impedimento ha liberato l’immaginazione, producendo una stupefacente fantasmagoria di testi poetici, letterari e filosofici. Difatti, come acutamente nota Leopardi nello Zibaldone, l’immaginazione è potenziata non dal vedere, ma dal non vedere. Chi vuol troppo vedere non sogna; si annoia.


Lo sa bene il buon maestro, che usa cum grano salis i potenti e super tecnologici sussidi didattici, ritenendo a ragione ben più rivoluzionaria la tradizionale lectio basata sulla parola capace di scuotere e scaldare il cuore dei suoi studenti. Nel suo bizzarro ma straordinario romanzo Il tempo dei miracoli, lo scrittore montenegrino Borislav Peki?, immagina che Bartimeo, il cieco guarito da Gesù, si cavi successivamente gli occhi, ritenendo la vista ritrovata una maledizione, perché gli impedisce di sognare la realtà a suo piacimento, mostrandogliela nella sua deludente deformità.


Contro il falso realismo delle immagini, idoli mendaci, ci avverte tutto il pensiero greco e cristiano. È stupefacente la modernità del mito della caverna di Platone: egli considera doxa, apparenza, le ombre degli idoli che altri ci costringono a vedere. E invita ad uscire dalla caverna per cercare la verità. La nostra società si è imprigionata invece in una caverna tecnologica multimediale. L’acculturazione omologante paventata da Pasolini si è realizzata nello strapotere della videocrazia post-ideologica in cui viviamo. Temo tuttavia che, piuttosto che essere post-ideologica, l’odierna sia una civiltà (?) ideo-alogica, in cui l’immagine non è più interpretata dal logos, ma è fine a sé stessa.


Narra la mitologia che Narciso, per aver disdegnato l’amore della ninfa Eco, fu punito dagli dei: si innamorò perdutamente della sua immagine, riflessa in una fonte, e nel vano tentativo di abbracciarla, cadde in acqua ed annegò. Eco, condannata da Era a ripetere le parole altrui, si consunse per il dolore e le sue ossa si mutarono in sasso: rimase solo la voce. La parola si fa puro flatus vocis, emissione di suono, vuota, ripetitiva eco lontana. E noi anneghiamo nel mare dell’oggettività.


Come Serafino Gubbio, il cameraman protagonista dell’omonimo profetico romanzo pirandelliano, rimaniamo vittime dell’afasia, succubi di una cinepresa. Tutta la grande arte, per Pirandello, è ispirata dal “sentimento del contrario”, dalla capacità, cioè, di saper vedere umoristicamente la realtà, con uno sguardo straniante che solleva il velo di Maya. Perché le cose non sono quelle che appaiono. L’arte smaschera col logos l’inganno delle immagini. Ma se la parola si sfilaccia, si sfibra, l’inganno diviene invisibile e siamo facili prede di un potere occulto.


Non è un caso se due scrittori, diversissimi tra loro per temperamento e poetica, Orwell e Tolkien, abbiano immaginato il Nemico che attenta alla nostra libertà come un occhio: l’occhio del Grande Fratello in 1984 e l’occhio di Sauron, l’oscuro Signore di Mordor de Il Signore degli anelli.




Nel romanzo di Orwell l’attacco alla parola viene portato nel terreno più delicato, adulterando il suo stesso essere una “parabola” di una verità più grande. La parola si fa menzogna: «Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile». È raccapricciante l’attualità di queste parole. Per Orwell non c’è scampo: il romanzo si conclude con un tradimento degli ideali di libertà e di autenticità da parte dei protagonisti.


Tolkien, invece, lascia uno spiraglio aperto: Frodo riesce a vincere l’ipnosi dell’occhio, rinunciando al potere dell’anello, che ti rende invisibile (ma non all’occhio di Sauron!), e a poco a poco ti succhia l’essere, trasformandoti in una larva evanescente. Proprio come Eco. Per sua fortuna, Frodo è un hobbit, giocosa creatura che ama raccontare storie. La sua natura stravagante lo salva. Tolkien è un autore profondamente cristiano, che sa che si può attraversare il male senza esserne catturati. Forse, se chiudessimo gli occhi, potremmo ancora guardarci dentro e, come Omero, continuare la sua storia di uomini e di dei; o come Mosè, incontrare Dio nel roveto ardente. Spezzando per sempre l’idolatria del vitello d’oro e liberando la Parola che è in noi.

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