Pubblicato il 17/05/2019
CULTURA
ph. Fabio Navarra

Francisco Cantú: discendere all’inferno per raccontarne l’umanità perduta



Francisco Cantú, pronipote di immigrati, messicano di origine ma americano di nazionalità, ha presentato il suo “Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera”, presso la Libreria Dovilio di Caltagirone, nell’ambito della rassegna “Scrittori strettamente sorvegliati”. Ancora una volta la Dovilio fa centro e offre agli appassionati lettori un testo che fa discutere e non lascia indifferenti: quando la letteratura si fa coscienza critica.   

di Giacomo Belvedere

Ci sono libri che fanno male, che si leggono con disagio, perché ti fanno sentire in colpa e ti strappano di dosso l’illusione della tua innocenza. Mettono in moto il pungolo della coscienza inquieta. Sono libri che raccontano una realtà che sembrerebbe lontana, ma che, tuttavia, man mano che si prosegue nella lettura, si svela assai vicina, oscenamente prossima al vissuto del lettore. È il disagio che si avverte leggendo Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera di Francisco Cantù, edito da minimum fax, ottimamente tradotto da Fabrizio Coppola.

Il fiume è il Rio Grande, che per 2000 km del suo corso segna il confine fra gli Stati Uniti e il Messico. È lì che Francisco Cantù ha lavorato come agente della polizia di frontiera degli Stati Uniti, la cosiddetta migra, per quattro anni, dal 2008 al 2012, nei deserti dell’Arizona, del New Mexico e del Texas.

Un confine che non è solo geografico, ma antropologico, tra paradiso e inferno, tra i sommersi e i salvati. Con una precisazione: chi si salva non ne ha alcun merito; chi è dannato non ne ha alcuna colpa. Eppure, lo stesso fiume per gli uni è Acheronte, per gli altri è il fiume dell’Eden.

IL RIO GRANDE - Il Rio Grande parla di storie lontane, al confine tra Arizona e Messico, ma evoca, ad ogni pagina, le acque, a noi assai più note, del Mediterraneo, anch’esse costrette ad essere, a dispetto della loro vocazione naturale, spartiacque di un giudizio apocalittico tra “noi” e “loro”, tra i salvati e i dannati. Le storie che racconta Cantú sono terribilmente simili a quelle che si consumano oggi alla frontiera d’Europa, in quel mare nostrum divenuto ormai mare monstrum.

Francisco Cantú, pronipote di immigrati, messicano di origine ma americano di nazionalità, ha presentato il suo libro, reduce dalla Fiera del libro di Torino, giovedì 16 maggio presso la Libreria Dovilio di Caltagirone, nell’ambito della rassegna “Scrittori strettamente sorvegliati”. Ancora una volta la Dovilio fa centro e offre agli appassionati lettori un testo che fa discutere e non lascia indifferenti: quando la letteratura si fa coscienza critica. Dire che la Dovilio è una libreria è riduttivo: è molto di più. È ormai, grazie alla tenacia e caparbietà di Daniela Alparone, una comunità vivente di lettori. 

LA DISCESA AGLI INFERI - È la vigilia di Natale, quando l’autore, giovane laureato in diritto internazionale, borsista Fulbright, traduttore, avviato a una brillante carriera come giornalista e studioso, dice a sua madre: «Sono stanco di leggere della frontiera sui libri». E alla madre, che sta cercando di convincerlo a non unirsi alla Border Patrol, l'agenzia di polizia federale che controlla la frontiera  e i flussi migratori, ribadisce: «So che potrebbe essere difficile, so anche che potrebbe essere pericoloso, ma non credo che esista un modo migliore per comprendere davvero quel posto».

La madre è perplessa. E non perché non condivida l’idea che per capire veramente un luogo ci devi vivere dentro. Lei stessa ha scelto di lavorare come ranger per stare all’aria, aperta, e riuscire a capire se stessa: «Speravo che in qualità di ranger – spiega al figlio - avrei potuto risvegliare nelle persone l’amore per la natura, convincendole a rispettarla e a proteggerla». Ma in questo caso è diverso. Perché il figlio Francisco ha scelto di muoversi su un discrimine pericoloso, in partibus infidelium, testimone dell’inferno, ma, al contempo, connivente con quella macchina infernale nelle cui schiere vuole arruolarsi. È come se avesse stretto un patto col diavolo, in cui in gioco è la sua anima. La madre lo ammonisce: «Parli come se stessi andando a vivere in comunione con la natura, impegnato in conversazioni profonde per tutto il giorno. Essere un agente di confine non è come fare il ranger in un parco. È un corpo paramilitare».

L'INFERNO DENTRO - Una posizione che rasenta l’ambiguità, scelta con ferma determinazione, nonostante i dubbi della madre: «Non so se il confine sarà il luogo in cui in cui riuscirò a comprendere meglio me stesso – tenta di spiegare alla madre -, ma so che lì c'è qualcosa che non posso fingere di non vedere. Forse il deserto, forse quella barriera sottile che separa la vita dalla morte, forse la tensione creata dalle due culture che ci portiamo dentro. Ma qualsiasi cosa sia, non lo capirò mai in quanto non mi ci sarò immerso». Una scelta che lo devasterà, provocandogli  incubi. Dalla catabasi agli inferi non si esce indenni.

È il prezzo da pagare per raccontare l’inferno dal di dentro, con rischio che l’inferno ti fagociti e ti renda suo complice. Se sei stato un agente della migra, come puoi aver salvata la tua anima? È l’accusa che a Cantù è stata mossa, da sinistra, negli Stati Uniti e che ha provocato dure contestazioni durante il giro per la presentazione del suo libro. Cantù ha invitato chi lo contestava a sedersi accanto a lui e a discutere. Perché forse è necessario sacrificare l’innocenza, per far implodere l’inferno e scoperchiarne tutta la verminosa e oscena brutalità.

LA FRONTIERA TRADITA - La narrazione è divisa in tre parti: la prima, il lavoro sul confine; la seconda, l’abbandono del confine per un incarico di intelligence; la terza, la vita dopo la polizia di confine e la storia di un immigrato clandestino, da anni in America e con famiglia e figli, che cade nella rete della migra e viene rispedito in Messico.

È la frontiera la protagonista del libro. Ma è una frontiera che ha smarrito sé stessa. La frontiera americana non è più l’oltre, la meta che si sposta sempre più in là, ma il muro che separa, che blocca. Non solo chi quel muro vuole oltrepassare, ma anche chi da quel muro si sente protetto. Il libro è dedicato alla madre, al nonno e “a tutti coloro che rischiano l’anima per attraversare o pattugliare un confine innaturale”. Perché i muri non ostacolano solo corpi, ma anche anime. Un’anima, per natura, rifugge dai confini, dalle prigioni. Chi si chiude dentro i muri, si relega dentro una prigione dorata. Parafrasando il detto evangelico: che vale erigere un muro per salvarti da un oscuro pericolo, se perdi l’anima che ti fa uomo? 

Quest’America, impaurita dalla propria ombra, è divenuta incapace di essere il Paese della frontiera in cui i sogni si avverano. La frontiera, da orizzonte escatologico di sogni e speranze è degenerata in claustrofobica camera di sicurezza.

LA RETORICA DELLA DETERRENZA - Su tutto aleggia, come un sudario mortale, l’assenza di pietà. L’abbruttimento delle coscienze ha inizio con la disumanizzazione delle persone: migranti ridotti a numeri, a categorie anonime: ci sono i mojados (i bagnati), quelli che tentano di attraversare il fiume, e ci sono i “muli”, quelli che, pur di passare, accettano di farsi corrieri della droga. Perché la droga passa, nonostante tutti i proclami contrari. Sono presentati nei power point dei corsi di addestramento, come criminali, narcos, nemici da combattere. Ma poi scopri che sono dei poveracci, su cui accanirsi è davvero inumano: come è inumano tagliare le bottiglie e versare l’acqua per terra – l’acqua è vitale nel deserto - , perché, così afferma la retorica della deterrenza, li dissuadi dal tentare la traversata. Ma non c’è nessuna deterrenza che possa fermare un disperato, nessun muro o porto chiuso che possa bloccarlo. Chi scappa sa bene che rischia la morte, ma sa anche che scappa da qualcosa di peggiore: l’inferno. «La polizia di confine – annota Cantú -, gli sceriffi, sembra che tutti abbiano scordato la pietà. Credo di non aver mai visto uno di loro mostrare un briciolo di umanità o compassione. Non so come facciano. Come si fa a tornare a casa dai propri figli, di sera, dopo aver trascorso l'intero giorno a trattare altri esseri umani come se fossero cani?».

PAROLE COME SASSI - La prosa di Cantú è antiretorica, scevra di indugi sentimentali o moralistici, “lapidaria” in senso pieno, come le pietre del deserto, eppure fascinosa e oscura, impassibile e dolorosa, in bilico tra il dispaccio diaristico e il saggio-memoriale, in cui empietas e pietas si fondono e si confondono ed è arduo tracciare un confine, a dispetto di chi quel confine vorrebbe marcare a fuoco. La lingua di Cantù è “una lingua sbiancata come ossa esposte al sole – ha scritto Fabrizio Coppola, che ha magistralmente tradotto il libro, in cui si è imbattuto casualmente in una notte insonne di dicembre, mentre navigava in rete. Ed è stata un folgorazione. Dietro il caso si nasconde spesso un destino.  Una lingua “scura e madida e tremolante come il risveglio dopo un incubo. Una lingua che rispecchia il terreno impossibile sul quale si svolgono le vicende, anch’esso a due facce, come ogni cosa in questa storia, spellato dal sole di giorno e avvolto dal vento gelido di notte. Una lingua zeppa di parole messicane, di imprecazioni, di gergo colloquiale, di termini che esistono solo in quella precisa area del pianeta: i coyote, i muli, gli scout…”.

TORNINO I VOLTI - È possibile restituire un'anima all'inferno? Cantú non offre soluzioni di comodo, facili scorciatoie. La sua prosa asciutta lascia la bocca secca, con un'arsura che non concede tregua. Proprio come nel deserto. Ma, come nel deserto, sorge prepotente l'istinto di sopravvivenza che può salvare: la sopravvivenza dell'humanitas perduta. Di fronte alla banalità del male, non perdere mai la bussola dell'indignazione: è l’imperativo categorico che urge dietro la prosa asciutta e senza fronzoli moralistici di Francisco Cantú. Restituire i volti alle persone che l’Internazionale dell'odio vorrebbe cancellate per sempre. È la missione catartica della parola affidata allo scrittore: «Quando pensiamo al confine, potremmo pensare alla nostra casa. E, quando pensiamo a coloro che lo attraversano, potremmo pensare ai nostri cari», scrive l’autore nella post-fazione del libro.

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